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Flora, plurilingue di natura e di famiglia, ci racconta la sua esperienza linguistica a Shangai.

Quando si fa un viaggio turistico non è necessario saper parlare tutte le lingue dei paesi che si visiteranno. L’inglese è oramai la lingua franca parlata persino nei paesi più anglo…fobici.

Per i paesi che guardano al turismo come ad una ricca fonte di entrate, la comunicazione è molto importante per garantire la sicurezza dei visitatori in tutti i sensi. Sapersi muovere, capire l’arte nei musei, cosa mangiare, cosa comprare… una gamma molto ampia di situazioni diverse.

L’altro giorno a San Paolo (Brasile), ho visto per strada uno che faceva l’elemosina alle macchine ferme al semaforo, offrendo in cambio una lavata di vetri. Diceva Bom Dia, bom Dia! (tr. Buon giorno, buon giorno!). Gli automobilisti, annoiati, hanno chiuso subito i finestrini, anche perchè oggi giorno sono molti i servizi di intrattenimento offerti ai vari semafori della città. Allora, il lavatore di vetri, frustrato, si è messo a camminare tra le macchine dai finestrini chiusi e poi, alzando le mani al cielo, ha detto: “Ah, ok! Da adesso in poi dirò Good morning, good morning!

Il poveraccio, ha pensato bene di passare dal portoghese all’inglese nel tentativo di attirare la clientela, cosa che immagino gli abbia dato una maggior stima di sè e che ha naturalmente fatto ridere molta gente lì attorno. Una prova del potere che detiene una lingua forte nella comunicazione commerciale!

Coloro che hanno avuto la fortuna di avere genitori o nonni immigrati sono cresciuti sicuramente bilingue. Ciò che permette al cervello di assorbire altre lingue con maggiore facilità. Come nel mio caso. Nonostante la lingua materna dei miei nonni fosse il russo, in casa tra i miei genitori e i nonni predominava il yiddish. Mentre a scuola le lezioni erano in portoghese, ebraico, francese e inglese. Lo spagnolo, o meglio, il castigliano dei miei amici argentini, si è aggiunto nel corso degli anni al mio bagaglio linguistico.

A casa di mio marito invece si parlava francese, arabo e ladino. Così che tra le nostre due famiglie abbiamo creato una piccola Lega delle Nazioni! E quando ci trasferimmo a Shangai il mandarino venne a coronare questa grande e variegata capacità linguistica-comunicativa della famiglia. Una grande sfida, difficile certo, ma non impossibile da imparare. E ci parve così interessante lo studio del mandarino che a tutt’oggi continuiamo a chiacchierare quanto possibile in cinese, idioma non molto comune lì dove siamo, proprio per non dimenticarne il vocabolario.

mandarinoAl nostro primo viaggio in Cina, al momento della recente apertura economica, erano ancora pochi i cinesi laureati in inglese o spagnolo. E naturalmente di una guida in portoghese manco a parlarne, in spagnolo sì. Mi ricordo una donna che parlava moltissimo, con un perfetto accento spagnolo e che ci mostrava alti edifici che appartenevano ad ‘impresari’… Ora, difficile avere tanti ‘impresari’ in un paese che aveva appena aperto all’economia straniera…

Per anni si è pensato che al turista non bastasse che un minimo di inglese per non perdersi in giro per il mondo, e anzi che aggiungendo a questo un minimo di linguaggio gestuale e fisico – il famoso linguaggio internazionale – oltreche un po’ di simpatia e buona volontà, in qualche modo sarebbe riuscito a comunciare con l’altro.

Non è poi così vero, come ci ha dimostrato la nostra stessa esperienza nel nostro nuovo paese di accoglienza. Una domenica infatti passeggiando nella città vecchia di Shangai siamo passati attraverso un bazar, dove si vendeva di tutto e di più, vestiti, stoffe, scarpe, ciabattine infradito etc. Io naturalmente superfelice! Soprattutto per le infradito che avevano attirato subito la mia attenzione. How much? chiedo, ma non ottengo risposta… Alchè mi metto a fare il segno del denaro, sfregando indice e pollice e bingo! Il venditore inizia a farmi dei segni anche lui, solo che sono incomprensibili… Io però insisto a sfregare indice e pollice fino a che il cinese, con aria paziente e bonacciona, si mette a scrivere dei numeri su un pezzetto di carta. Ma non è possibile! Non costavano niente quelle infradito!! Una cifra così assurdamente irrisoria per una dozzina di flip flop che non mi pareva proprio possibile, tanto che alla fine abbiamo entrambi desistito. Peccato, un affare mancato sia per me che per lui…

Qualche mese più tardi, quando avevamo già cominciato a studiare e a familiarizzarci con il mandarino, abbiamo scoperto che i cinesi hanno una maniera tutta loro di usare i segni. Mentre noi utilizziamo il segno convenzionale delle cinque dita per il numero 5 o di otto dita per il numero 8, i cinesi, dal canto loro, usano i segni per riprodurre i caratteri del mandarino. Ecco spiegato il linguaggio tra… sordi quel giorno al bazar e i segni incomprensibili del venditore… Ma il prezzo?, chiederete voi. Sì, quello era vero.

La Cina aveva appena aperto all’economia internazionale, chiedere prezzi più alti al compratore straniero per ottenere un guadagno maggiore era una cosa ancora poco conosciuta. Quindi ecco l’assurdità, per loro un prezzo giusto e per noi un prezzo così basso da non poter sembrar vero. Però poi, quando abbiamo iniziato a comunicare in mandarino, una delle frasi del nostro vocabolario più frequentemente usata era proprio “Meno, ci faccia di meno per piacere!”. E del resto come non mercanteggiare e negoziare in Cina? In fondo fa parte del divertimento del comprare, no? E poi aiuta l’integrazione, con gli espatriati che dimostrano il loro rispetto per il paese di accoglienza studiandone la lingua e i cinesi che ammirano lo sforzo messo nello studio di una lingua così difficile.

In questa magnifica esperienza asiatica, molti dei nostri amici espatriati più giovani hanno avuto la possibilità di esporre per più tempo i propri figli al mandarino e al dialetto di Shangai, attraverso la presenza dello staff domestico, cioè l’aiutante (la Ayi) e gli autisti. Alla scuola internazionale infatti i corsi si tengono in inglese, francese o tedesco, a seconda della nazionalità della scuola.

A Shangai ho conosciuto una bambina brasiliana di 4 anni che conversava in portoghese con gli amici brasiliani dei genitori. All’asilo imparava inglese e mandarino e con la Ayi comunicava nel dialetto locale. Vale la pena menzionare che la mamma della bambina aveva imparato l’inglese in Pakistan, durante la sua prima missione all’estero. Una donna molto simpatica e piena di racconti che continuava a tradurre letteralmente frasi idiomatiche e detti dal portoghese all’inglese, cosa che ci faceva sempre molto ridere perchè sapevamo dove voleva andare a parare… Bisognava essere brasiliani per capire la nostra nuova amica e i suoi racconti. Penso che bisogna essere abbastanza sicuri di sè per riuscire a lanciarsi da una lingua all’altra senza preoccuparsi troppo nè di accenti nè di errori grammaticali.

E’ il bisogno di comunicare che ci dà questa sicurezza. D’altro canto ho conosciuto anche persone che pur avendo vissuto molti anni in espatrio non si sono mai preoccupati di imparare le lingue locali. Hanno praticamente sopravvissuto grazie all’aiuto del personale domestico e degli autisti, che diventavano così responsabili di molte faccende, tra cui anche la traduzione e l’interpretazione. Interessante anche come molti insistessero a cambiare il nome del personale domestico per non dover così pronunciare i tre nomi cinesi di ciascuno, come ad esempio Huang Mei Ling. Uno degli autisti fu ribattezzato Abdul dal suo datore di lavoro che veniva dagli Emirati Arabi.

A proposito di autisti, mi sono spesso sentita frustrata nel tentativo di comunicare nel linguaggio dei segni col mio autista, Mr Yin (a cui non abbiamo mai cambiato di nome). C’era un cartello scritto in cinese, appeso ad un muro, non capivo a cosa si riferiva, mi sembrava un cartello di transito e così cercavo di segnalarglielo insistentemente, mentre guidava. Ma lui niente, continuava a guardarmi il dito con mia grande frustrazione. Ed io lì, seduta sul sedile posteriore…

Per molti cinesi, all’epoca, lavorare con gli stranieri era molto vantaggioso. Insieme all’aspetto finanziario infatti c’era anche la possibilità di imparare l’inglese durante le ore di lavoro. Nè con la liberalizzazione, nè con l’apertura economica si era introdotto lo studio dell’inglese nelle scuole. Nelle scuole frequentate dai nostri assistenti domestici era obbligatorio studiare il russo.

Iniziava una nuova era che ricordava, con le dovute differenze,  l’epoca nella quale gli inglesi dominavano una parte della città (1852 – 1949). All’epoca i britannici inventarono un Pidgin per facilitare la comunicazione con la gente locale che lavorava per loro. Un dialetto senza grammatica, nè coniugazioni. Insomma, una specie di inglese mal parlato, con suoni onomatopeici che a pronunciarli suonavano come cinesi. Un esempio: Chop-chop per dire ‘veloce’…. Il Pidgin è scomparso quando prese piede il movimento di liberazione della Cina guidato da Mao Ze Dong, che adottò il mandarino – la lingua parlata a Pechino – come lingua nazionale.

Fino a che le cose non sono cambiate il Pidgin ha funzionato meravigliosamente bene come lingua commerciale. Soprattutto nelle relazioni con i  “Compratori” (parola presa in prestito dal portoghese, comprador), che erano coloro che mediavano e gestivano l’intero commercio con gli stranieri. Il che significava farsi traduttori ma anche compratori d’oppio e di seta che, sia gli inglesi che stranieri di altre nazionalità, esportavano all’estero. Grazie alle loro capacità linguìstica e commerciale i Compradores fecero enormi guadagni e finirono per diventare fondamentali per gli inglesi.

Io da parte mia avevo deciso di non usare nè codici nè l’inglese per comunicare con gli altri. La routine domestica e l’uso del mandarino con le persone di casa sono state molto utili ai miei studi per avere un mandarino di base e riuscire a comunicare senza troppe pretese. C’era anche molto da imparare sulla cultura del luogo. Le cinque ore del corso all’Università, anche se i professori utilizzavano una metodologia piuttosto antiquata, di memorizzazione, mi sono bastate.

Con la Ayi Sun, abbiamo attaccato pezzetti di carta in giro per la casa. Io scrivevo foneticamente le parole cinesi che volevo memorizzare e la Ayi scriveva caratteri chilometrici per riuscire a pronunciare parole in portoghese o in inglese. Porta, sedia, tavolo. Dato che il cinese è basato su idee e non è fonetico, la traslitterazione è difficile. Per scrivere tavolo si scrive l’ideogramma che rappresenta il tavolo e così via.

C’è anche un’altro modo per imparare il cinese, usando il Pinyin che è la lingua cinese scritta con il nostro alfabeto, ma con pronuncia diversa. Per esempio se parliamo della Dinastia Qin la pronuncia esatta è Cin. Da qui nacque peraltro il nome di Cina, così chiamata dai primi visitatori stranieri. Il Pinyin è più facile da memorizzare che non il Cinese vero e proprio con le sue migliaia di caratteri e le sue quattro variazioni tonali.

Alla fine a casa i mobili, le porte, le cose, perfino tutto quello che era dentro al frigo, era pieno di pezzetti di carta gialla attaccati per memorizzare i nomi. E ancora oggi usiamo parole di quella lingua imparata allora. A volte infatti parole di lingue diverse dalla nostra ci suonano meglio o ci pare che riescano ad esprimere meglio il concetto o l’idea che vogliamo comunicare. Così, senza volerlo, le facciamo nostre. Parole che si incorporano giorno dopo giorno al proprio vocabolario linguistico, e che ci fanno capire quanta ricchezza linguìstica si ha a disposizione volendo approfittarne, non fosse che per poter parlare tra noi senza che gli altri ci capiscano…

Flora,
Perth, Western Australia
Gennaio 2011

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