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Claudiaexpat ci racconta di alcune mostre fotografiche che ha visto a Gerusalemme recentemente, dandoci un’idea del fermento culturale della sua bella città d’accoglienza.

 

Sarà stato un caso, ma da quando in equipe abbiamo preso la decisione di dedicare il mese di giugno alla Fotografia in Espatrio, e di lanciare la seconda edizione del nostro concorso fotografico, a Gerusalemme è stato tutto un fiorire di mostre fotografiche e iniziative e scoperte legate alla fotografia.

fotografia fotografiaLa prima occasione è stata la mostra di Amélie Debray, una fotografa francese che ha voluto documentare la passione per il calcio in Palestina. Dopo aver lavorato sullo stesso tema in Francia e in Africa del Sud, in occasione di un viaggio in Israele, Amélie ha volute prolungare la sua ricerca artistica, e il risultato è stato la mostra fotografica esposta in uno dei luoghi più affascinanti di Gerusalemme, l’Al-Quds Study Centre, un centro culturale legato all’Università Al-Quds, che si trova al Suq Al Qattin, dentro a un vecchio caravanserraglio che conserva intatto tutto il suo fascino. La mostra era esposta in un antico hammam dentro al centro, oggi inutilizzato perchè le autorità israeliane negano il permesso di riabilitarlo ed usarlo, un luogo affascinante nel quale ci siamo intrattenuti a lungo a guardare le belle fotografie di Amélie.

fotografiaLa stessa sera ci siamo poi spostati all’Hoash Gallery, una galleria d’arte nel pieno cuore di Gerusalemme Est, gestita da un gruppo dinamico di giovani artisti, dove era esposta la splendida mostra fotografica “I have something to say” che raccoglieva le foto che hanno partecipato alla quarta edizione dell’omonimo concorso fotografico. L’iniziativa si proponeva di promuovere la percezione del ruolo della produzione visuale e la sua relazione con contesti politici e sociali. I giovani fotografi partecipanti dovevano sottoporre da 3 a 5 foto e un testo nel quale veniva spiegato “cosa avevano da dire”. Sono state ricevute 32 fotografie da città, villaggi e campi di rigugiati palestinesi. Il primo premio è andato a Dima Khouri, che ha proposto un servizio fotografico sui divani e la loro funzione nella geografia delle vite palestinesi. Abbiamo avuto la fortuna di incontrare Dima all’esposizione, e di farci raccontare come le è venuta l’idea. “Il divano”, ci ha raccontato, “ha una funzione importantissima nell’attesa, che è un elemento fin troppo presente nella vita dei Palestinesi. La mia attenzione è stata attratta in primo luogo dai divani posti al di fuori dei check-point e dei cancelli che delimitano la proprietà occupata dai coloni israeliani. I palestinesi, legittimi proprietari delle terre, che ancora oggi lavorano, devono aspettare, a volte anche per ore, che vengano aperti i cancelli e venga loro dato l’accesso. Qui entra in gioco il vecchio divano. Solitamente posto sotto a un albero (quando c’è), diventa il fulcro delle attività che si sviluppano durante l’attesa”. Ma non è solo ai check-point che il divano fa la sua comparsa. Con curiosità e pazienza, Dima ha cominciato a fotografare divani ovunque ne vedeva – sotto a un albero, contro una parete, sotto a una tettoia, fino a quando si è resa conto di un pattern che integrava il divano nella quotidianità della vita locale. Il risultato è stato un reportage quasi divertente (se non fosse che a volte è piuttosto tragico), che le è valso il primo premio.

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Accanto alle splendide foto di Dima ce n’erano molte altre. In alcuni casi non so se mi colpivano di più le immagini o i testi, ma tutte, invariabilmente, avevano molto da dire.

fotografiaUn paio di giorni dopo sono andata all’inaugurazione di una mostra al Centro Culturale Francese Chateaubriand, dal titolo “Visages du Proche Oriente” (Volti del Vicino Oriente). La mostra raccoglieva alcune fotografie che sono parte della collezione della Scuola Biblica di Gerusalemme, che, ho scoperto con mia grande sorpresa ed eccitazione, raccoglie 20,000 (VENTIMILA) dagherrotipi raccolti dal 1880 in avanti da fotografi vari, tra i quali emergono le figure di Antonin Jaussen (1871-1962), professore della Scuola Biblica, epigrafista, grande conoscitore delle lingue orientali, ed esploratore, e Raphael Savignac, che viaggiavano tra la Palestina, la Giordania, e la Siria e il nord dell’odierna Arabia Saudita. Il padre Jean-Michel de Tarragon, fotografiacuratore dell’archivio fotografico in questione, ci ha spiegato che l’idea di questa mostra, con enfasi sui volti del Medio Oriente dell’epoca, gli è venuta mentre digitalizzava pazientemente i dagherrotipi della collezione. Gli è piaciuta la spontaneità dei soggetti ritratti da Savignac e Jaussen – un compagno di viaggio, una famiglia di un villaggio, un cammelliere, una guida beduina. La mostra raccoglie in effetti dei gioielli fotografici – sia per qualità tecnica che per intensità di espressione – che i curatori della mostra han scelto senza pretese etnografiche. La selezione delle fotografie esposte è stata dettata da un’emozione, dallo stupore, da un sorriso.

La scelta dell’evento successivo si è rivelata altamente spinosa: nella stessa serata, infatti, veniva inaugurato uno spazio espositivo e artistico nella città vecchia, con mostra fotografica e altri eventi, e veniva presentato, all’Educational Bookshop di Salah Adin un documentario su Karimeh Abbud, la prima donna fotografa palestinese. Ho scelto il primo, sia per curiosità che per desiderio di appoggiare i giovani artisti che hanno ristrutturato lo spazio e lo hanno messo a disposizione del pubblico, e ho fatto poi alcune ricerche su Karimeh Abbud (vedi riquadro).

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Il Ma’mal LAB è un gruppo formato da giovani professionisti che lavorano in ambito artistico e culturale nella Città Vecchia di Gerusalemme. In una splendida casa vicino a New Gate, questi giovani condividono uno spazio in cui lavorano, ognuno nel suo campo – architetti, fotografi e pittori spostano le loro scrivanie a seconda delle esigenze collettive. Il gruppo organizza corsi di vario tipo, ed eventi culturali. La sera della sua inaugurazione veniva presentata una mostra fotografica che raccoglieva i lavori degli studenti del corso di fotografia da poco conclusosi. Attraverso il corso gli studenti hanno potuto mettere in pratica quanto imparato sulle basi della fotografia. Alla teoria han fatto seguito giri in diverse zone di Gerusalemme, durante i quali si è sviluppata la discussione sul tema “La città”. La mostra presentata la sera dell’inaugurazione raccoglieva le fotografie più significative dei futuri fotografi palestinesi.

Mi fermo qui, ma potrei continuare, perchè le iniziative attorno alla fotografia, come espressione artistica ma soprattutto come potente mezzo per testimoniare la Palestina di ieri e di oggi, continuano a fiorire in questa affascinante città.

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Karimeh Abbud veniva da una nota famiglia di Nazareth. Suo padre era un prete protestante che prestò servizio a Gerusalemme, Betlemme, Haifa e Nazareth. Sono stati proprio questi continui spostamenti dettati dal padre, che hanno stimolato in Karimeh la curiosità verso i diversi tipi di paesaggio, e il desiderio di ritrarli. Nel 1913 ricevette la sua prima macchina fotografica, in regalo per i suoi 17 anni, e da allora si lasciò conquistare completamente dalla passione, ritraendo (e stampando da sè) i membri della sua numerosa famiglia, oltre che i paesaggi che la circondavano. Più avanti Karimeh frequentò l’American University di Beirut, ottenendo una laurea in letteratura araba. Intorno al 1920 cominciò a guadagnare vendendo le sue fotografie, che si concentravano su donne e bambini, anche se sempre allo stesso periodo risalgono una serie di foto di luoghi pubblici ad Haifa, Nazareth, Betlemme e Tiberias. Mentre studiava a Beirut, fece anche un viaggio speciale a Baalbek per fotografarne i siti archeologici. Nel 1930 Karimeh era già un’affermata fotografa professionale. Raggiunse l’apice della sua carriera a Nazareth, firmando i suoi lavori in inglese e arabo: “Karimeh Abbud – Lady Photographer”. Con gli eventi del 1948 si perdono le tracce della carriera di Karimeh, che trascorse gli ultimi anni della sua vita a Nazareth, dove morì nel 1955. Negli ultimi cinquant’anni quasi tutte le sue fotografie erano andate perse, ma nel 2006 un collezionista antiquario israeliano mise un annuncio in alcuni giornali in lingua araba, chiedendo informazioni sulla collezione di Karimeh Abbud. Risultò che aveva trovato un certo numero delle sue fotografie in una casa del quartiere di Qatamon, a Gerusalemme, da cui i proprietari erano fuggiti nel 48. Se ne deduce che Karimeh abbia vissuto in quella casa dal 1930 al 1948. Il collezionista era in possesso di 400 fotografie, alcune firmate dalla Lady Photographer, che includevano ritratti in studio e paesaggi di varie parti della Palestina e della Giordania. Ahmad Mrowat, ricercatore e direttore del Nazareth Archive Project, da un cui articolo ho attinto la maggior parte delle informazioni su Karimeh, ha potuto comprarle e aggiungerle alle fotografie già in suo possesso, costituendo così una notevole collezione dell’opera di questa affascinante fotografa.

 

Claudia Landini (Claudiaexpat)
Gerusalemme
Giugno 2012

 

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