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Intervista a cura di Claudiaexpat
Aprile 2008
L’espatrio di Susanna Fioretti non è un espatrio in senso classico, tutt’altro. Le sue missioni (per conto della Croce Rossa Italiana o della Cooperazione Italiana) hanno una durata di tre mesi al massimo. Io ho conosciuto Susanna attraverso un libro che mio marito mi ha messo tra le mani un giorno, di ritorno da un periodo di lavoro a Roma. Il libro si intitola “La Tela di Penelope”, ed è stato stampato a Kabul da un’associazione di donne afghane. Ho cominciato la lettura del libro con un misto di scetticismo e curiosità. Scetticismo perchè essendo io abbastanza avezza a missioni “dure”, e da quello che mio marito mi aveva detto Susanna lavorava solo in paesi “duri”, temevo di trovarmi di fronte a un documento che non mi avrebbe raccontato nulla di nuovo. Curiosità perchè Susanna è donna e lavora perlopiù in contesti in cui le donne devono sforzarsi il doppio per avere gli stessi risultati degli uomini; perchè è italiana, e ci accomuna dunque un certo sentire; perchè è madre, come me, di due figli maschi, che restano a Roma mentre lei parte per immergersi nella sabbia, nei colori e nella miseria. Poi ho aperto il libro e non l’ho più lasciato. Con naturalezza, come naturale è il modo di comunicare di Susanna, sono entrata nella sua storia, in questa sua vita fatta di elementi e momenti che caratterizzano la vita di noi donne e di qualcosa in più, di un’apertura verso l’altro, di un esporsi, coraggioso e caparbio, a situazioni differenti, ritmate dalla necessità di sopravvivere, da tempeste di sabbia e da piogge torrenziali, da culture secolari, da tramonti spettacolari, e da povertà, difficoltà, ingiustizie, lotta per la sopravvivenza…. Susanna ha lavorato, e continua a fare brevi missioni, in Afghanistan, India, Mauritania, Iran, Yemen e Mozambico. Paesi che racconta con onestà, rispetto e disillusione. Mescolando alle missioni che la portano nei loro angoli più remoti, momenti privati fatti di delusioni amorose, di nuovi rapporti che si allacciano, di nuove avventure che cominciano, di un “sentire” tutto femminile, tutto materno, tutto profondamente sincero.

Ho avuto la fortuna di poter parlare rapidamente con Susanna tra un ritorno dalla Mauritania e una partenza per Kabul. Quella che segue è la nostra chiacchierata in Skype.

 

Il tuo libro mi è piaciuto tantissimo. In particolare mi è piaciuta la magia con la quale hai intercalato le tue vicende personali alle tue missioni umanitarie. Credo che il successo del libro stia in questo. Si sente che chi parla non è nè una missionaria nè una crocerossina, ma prima di tutto e sostanzialmente una donna che porta in giro con sè i propri dolori, le proprie paure, e quella voglia e gioia sfrenata di vivere. E’ evidente che hai una vena da scrittrice neanche tanto nascosta… Hai scritto altri libri oltre alla Tela di Penelope?

Il mio primo libro, Frammenti di una storia romana, racconta la mia esperienza di infermiera volontaria in un campo nomadi alla periferia di Roma, che è la mia città. Ho scritto poi favole per bambini, che però per varie vicende editoriali non sono state pubblicate, e infine La Tela di Penelope. In effetti quello che dici è vero: il rischio di raccontare missioni umanitarie in paesi del cosidddetto terzo mondo è che si immagini la storia di una sorta di suora laica, e il fatto di metterci in mezzo amori, divorzi, figli, etc. lo rende invece tutt’altro, credo sicuramente più ‘sentito’ e condivisibile dai lettori. E’ quello che mi hanno detto in molti, dopo averlo letto. Ed è stata una bella sensazione scoprire che quanto avevo cominciato a scrivere soprattutto come sfogo personale aveva suscitato interesse e addirittura speranza in uomini e donne sconosciuti.

 

Tu hai lavorato in svariati paesi. Posso chiederti quali, e qual è fra tutti quello che più ha fatto breccia nel tuo cuore?

Ho cominciato con la Mauritania, a cui han fatto seguito l’India e poi l’Afghanistan, dal 2002, con una parentesi in Iran. Sempre missioni brevi, non più di tre mesi. Ho lavorato anche in Yemen e, dall’anno scorso, in Mozambico.
Il paese di cui mi sono innamorata? La Mauritania, ma anche l’Afghanistan (di cui appunto parlo nel secondo libro che chissà quando finirò)… Non ci si innamora sempre dei più ‘difficili’?

 

A Sofala, Mozambico

A Sofala, Mozambico

 

Però anche la Grecia la devi amare tantissimo, se hai deciso di lanciarti in un progetto come quello della casa ecologica (Susanna è ideatrice e coordinatrice di attività di ricerca e protezione ambientale a Rodi, dove ha disegnato e costruito una casa ecologica, attorno alla quale ruotano interessantissime e naturalissime attività, e qualche sogno…). A che punto è quest’avventura, e come riesci a starle dietro tra missioni all’estero e impegni personali?

Di tutte le belle attività che avevamo cominciato attualmente è rimasta in piedi solo la casa, con un grosso sforzo economico da parte mia. Un anno dopo averla finita il tetto non ha retto, l’acqua è filtrata nelle pareti di paglia e… preferisco non ripensarci. Ci sono voluti due anni, ai miei ritmi, per riparare tutti i danni, e comunque ho sempre un sacco di spese per mantenerla. Volevo trasferirmi lì con il mio ex e adottare dei bambini, in un certo periodo. Poi sono rimasta sola e ho cercato di affittarla, per coprire le spese, ma l’ho anche offerta ad associazioni che si occupano di bambini orfani o in altri sensi vulnerabili. Un’estate ho avuto ospiti degli orfani greci, ed è stato molto bello per tutti. Volevo ripetere l’esperimento con bambini sieropositivi o affetti da AIDS, ma il villaggio vicino non ha gradito l’idea. Per mettere in piedi queste attività bisogna avere il tempo di seguirle e in questi ultimi tempi sono stata troppo occupata per trovare contatti o contributi. Il prossimo luglio però torneranno finalmente dei bambini con deficit, assistiti da un’associazione belga. La cosa certa è che per continuare devo fermarmi un po’ e trovare un modo per farla rendere abbastanza da coprire almeno le spese di mantenimento.
Tornando alle tue missioni in paesi islamici, c’è una domanda che vorrei farti. In generale parlando di donne musulmane ci si trova di fronte a due correnti: quella che mette in risalto lo sfruttamento, l’umiliazione, la condizione degradante alla quale la donna è sottomessa, e un’altra, all’estremo opposto, che afferma che tutte le brutture assegnate alla vita delle donne musulmane non sono altro che frutto della disinformazione occidentale rispetto a come davvero si sentono le donne in contesti islamici. E’ possibile secondo te scardinare entrambe queste immagini per crearne una diversa?

E’ molto molto difficile generalizzare, perchè il tipo di vita della donna musulmana dipende molto dal paese e dall’estrazione sociale. L’Islam non è uguale dappertutto, c’è un Islam che si può paragonare al cattolicesimo fanatico, quello che bruciava le donne sul rogo, un Islam illuminato, progressista, e tante situazioni intemedie. Molto dipende dalla condizione sociale. Per le donne dei ceti più bassi i diritti sono spesso limitatissimi, se non nulli. Però questo non è vero, ad esempio, in Mauritania, dove molte donne di ogni condizione hanno possibilità di lavorare ed essere indipendenti. In ogni caso c’è la costante del Corano, e non mi riferisco solo alla sura delle donne, che indica il ruolo della donna come subordinato a quello dell’uomo, in vari sensi. Nell’Islam la vita sociale è regolata dalla sharia e dalla tradizione, e per quanto si possa essere libere fra le mura domestiche fuori si deve sottostare alle regole, burqa e altro che sia. Molto dipende anche da quanto il marito, padre o fratello ha studiato e viaggiato. In genere più gli uomini si sono confrontati con altre esperienze culturali, più le donne sono libere, ed è raro che nei ceti più alti gli uomini abbiano contemporaneamente più mogli, almeno in certi paesi. Forse una cosa saggia sarebbe smettere di generalizzare. E anche se è normale guardare dalla propria prospettiva, bisognerebbe fare uno sforzo per allargarla, prendendo in considerazione ‘l’altro’ punto di vista.

 

Susanna alla riunione annuale dei pescatori di Socotra, Yemen

Susanna alla riunione annuale dei pescatori di Socotra, Yemen

Un piccolo esempio: lavoravo nell’isola di Socotra, in Yemen, era maggio e c’era un caldo allucinante. Dovevo indossare camice a maniche lunghe e gonne alla caviglia; anche se erano di cotone leggero, sudavo ininterrottamente. Guardavo allibita la ragazza yemenita che mi faceva da traduttrice, o meglio i suoi occhi, perchè si vedevano solo quelli, dato che portava il vero burqa, nero, con velo, calze, scarpe chiuse e guanti, sempre neri, e sotto un vestito lungo, il tutto in materiale sintetico!!!! Mi sentivo male per lei e a un certo punto le ho chiesto come facesse a resistere. Lei, stupitissima, mi ha risposto che non avrebbe potuto nè voluto mettere altro, e dato che eravamo in argomento ha aggiunto che non le piaceva affatto come mi vestivo io o peggio le turiste che passavano per l’isola. Vestirsi come lei crea non pochi problemi alla pelle, per via del sudore e della poca esposizione all’aria e alla luce, e sembra assurdo che nessuna donna di Socotra possa immergersi senza vestiti nel bellissimo mare… Eppure quella che io vedevo come una tenuta punitiva e sacrificante, per lei era la cosa ‘buona e giusta’ da indossare.

Vorrei concludere con un accenno ai tuoi figli e al discorso materno. Le espatriate “come me”, che vivono per lunghi periodi in vari paesi, arrivano ad un certo punto in cui i figli, una volta cresciuti, lasciano il nido per andare a studiare in un altro paese. E’ molto raro che i figli facciano l’università nel paese in cui casualmente i genitori si trovano in quel momento. Per te il discorso è stato al contrario… sei stata tu ad un certo punto a lanciarti in un lavoro che ti portava all’estero e ti metteva quindi in condizione di “spiccare il volo”, di lasciare i tuoi figli a casa…. come hai vissuto la cosa?

Quando mi sono separata dal padre dei miei figli, abbiamo concordato che i ragazzi, ancora piccoli, sarebbero rimasti con me fino a quando il più grande avesse avuto vent’anni e il minore diciotto, poi si sarebbero trasferiti vicino a lui. In effetti è andata così, e il caso ha voluto che il loro trasferimento coincidesse con la separazione dal secondo e ultimo uomo con cui abbia vissuto un lungo e importante rapporto. Quindi, più o meno contemporaneamente, sono passata dal vivere con tre uomini e un cane al restare sola con il cane. Benchè lei facesse del suo meglio (era una femmina) devo dire che il vuoto si sentiva. Non è stato proprio un bel momento, e quello che ho detto ai ragazzi e a me stessa è che bisognava scegliere fra una madre depresso-psicopatica presentissima in casa, e una che, provando a dimenticare e rendersi utile in paesi dove c’erano ben altri problemi, forse sarebbe tornata normale. Così sono partita per la prima volta come volontaria e ho quindi iniziato a fare questo lavoro, ponendomi una regola: accettare solo missioni brevi, non più di due o tre mesi, per poter tornare spesso a casa e stare coi ‘miei bambini’ come per mail non si può fare: andarli a trovare, mangiare insieme, vederli cambiare, parlare con loro, ascoltarli… Insieme alla promessa di lasciare tutto e tornare subito, nel caso avessero bisogno di me, questo è stato il mio modo di essere ‘madre-lavoratrice all’estero’, diventato molto più facile ora che hanno rispettivamente ventotto e ventisei anni. A me è costato in termini di guadagno e di carriera, per loro non so quanto sia stato duro perchè non si sono mai lamentati di avere una madre simile. E nonostante tutto mi pare che siamo riusciti a mantenere un rapporto buono e forte…

Voglio concludere questa intervista con pezzi tratti dall’introduzione e dall’appendice del libro di Susanna, che spero potremo vedere presto nuovamente in commercio.

“[…]Negli ultimi anni ho tenuto un diario incostante, in cui c’è poco o niente di certi fatti e pensieri, troppo di altri. E’ una cronaca incompleta ma vera, pagine che ora metto insieme senza modifiche o aggiunte perchè ciò che ho taciuto e quanto invece ho avuto bisogno di fissare sulla carta mi aiutino a capire come sono fatta, che cosa per me è davvero importante.

Mi accorgo infatti che la mia vita assomiglia in modo preoccupante alla tela di Penelope: tessuta alla luce della ragione o dei sentimenti, disfatta nei momenti di buio. Io però non sono Penelope. Quello che aspetto e a cui sono fedele non è un marito lontano, e anche se mi sembra di decidere la trama non sono sempre io a stringere e sciogliere i nodi.

In effetti, più che sedere al telaio vado in altalena. Volo sù, vedo lontano, poi torno giù e c’è solo la terra dura sotto i piedi.

Evanescenti carovane di cammelli, piroghe in balia delle onde, brocche di metallo su teste ingioiellate, donne che raccolgono il cotone con mani sanguinanti, donne vestite di colori e ricami che scavano la terra dura come pietra, donne velate che spaccano legna, occhi disperati, occhi allegri e curiosi, occhi immensi in facce piccole piccole, le colonne di un tempio che domina il mare, le cupole di Roma nel cielo azzurro, morbide campagne, spingere il cavallo al galoppo, distese di ginestre, mosaici di fiori selvatici, merletti di pietra, portoni chiusi su secoli di storia, tempeste di sabbia, l’ululato dello sciacallo, i morsi della paura, dune rosse e grandi tende dei nomadi, notti di baci che l’alba sorprende troppo presto, notti che non finiscono mai, uomini armati, uomini senza denti, adolescenti scheletrici che trascinano enormi fardelli, ragazze con la pelle già avvizzita, il bianco del sole che uccide, la fame, la sete, la malattia, corpi perduti, corpi mulilati, villaggi disintegrati, pregare e credere in una risposta, tornare a casa, cuori che battono uno contro l’altro, guaiti di gioia e un muso caldo, addormentarsi al sicuro nel vecchio letto, il canto notturno dell’assiolo e quello del merlo mattutino, luci d’autunno, cappucci di neve sulla macchina scura di boschi, fumo d’incenso e preghiere, foeste pagane, balli leggeri come voli, ossessive danze tribali, musica d’organi in una chiesa vuota, le note di Rachmaninov, odore di brace, castagne e bucato, asini con la schiena spezzata dalla fatica, palme maestose e antiche città assediate dalla sabbia, orizzonti infiniti di immensa solitudine, risate che riscattano ogni dolore, mendicanti vestiti di stracci, sinfonie di cicale, profumo di liquirizia e salvia selvatica, onde d’argento e tartarughe sotto la luna, amare e sentirsi eterni, perdere l’amore e la ragione, distese di rifiuti, colonne di fumo soffocante e aria infetta, i miei bambini che sorridono nel sonno, i miei figli diventati uomini capaci di amare, bambini schiavi, bambini che non conoscono le carezze, bambini che vivono nel terrore, bambini che hanno fame, bambini che soffrono e muoiono senza piangere, sapersi inutili, arrendersi, aggrapparsi a una speranza, provare una nostalgia feroce, ammalarsi dove un ospedale è più lontano di un miraggio, capelli impastati di polvere, pelle disidratata che si spacca, acqua tiepida da bere, capre con cui dividere la stalla per la notte, pasti consumati in ginocchio con dieci mani nello stesso povero piatto, posate d’argento su tovaglie di pizzo, montagne di cibo per stomaci saturi, traffico luci e telefoni che squillano, troppo silenzio, città dove il cielo non si vede più e il buio non esiste, cieli neri incastonati di stelle e cristallo, il canto del muezzin e quello delle campane, Diwali, Ramadan, Natale. Sentirsi a casa ovunque e da nessuna parte.

Di questo è fatta la trama della mia vita: un intreccio di fili separati e in apparenza senza senso, che però mi sembra comincino finalmente a comporre un disegno. A volte è ancora aria di primavera e vivo di sogni, fremiti e progetti, a volte invece credo di sapere che senso avrà la tela finita, mi vedo alle porte dell’autunno e della saggezza. Ho l’impressione di avere due corpi, uno florido, forte, fidato, l’altro stanco, segnato e traditore, che si avvicendano come l’anima vagabonda si alterna a quella in cerca di quiete. Mi sento, in due parole, una vecchia ragazza.”.

Susanna Fioretti
La Tela di Penelope
Sideral Edizioni, 2004

Ringraziamo la Sideral Edizioni per averci permesso di stampare questa parte tratta dal libro di Susanna.

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