Home > Uomini Expat > Intervista a Luca, figlio e padre espatriato

Luca è italiano, nato a Roma. Dai tre ai cinque anni ha vissuto in Congo (ex Zaire), e poi è tornato in Italia. A otto anni si è trasferito in Belgio, dove ha fatto tutti i suoi studi, e nel ‘94 ha cominciato i suoi viaggi in Brasile, dove si è trasferito stabilmente con Florence, sua moglie, nel ‘97. Dopo dieci anni tra Rio de Janeiro e Brasilia, e la nascita dei suoi due figli, si è trasferito a Lima, Perù. Fotografo free-lance, nel trasferimento in Perù si è occupato in prima persona dell’installazione della famiglia e dall’adattamento dei bambini. L’ho incontrato per quella che più che intervista definirei un’interessantissima chiacchierata sulla sua infanzia e il suo ruolo attuale di padre. Grazie Luca, per tutti gli interessanti stimoli di riflessione che il tuo racconto ci offre!

Raccontaci di te, della tua infanzia…

Sono nato a Roma, e all’età di tre anni la mia famiglia si è trasferita in Congo (ex Zaire), per due anni. Non ho ricordi precisi di quel periodo, giusto qualche immagine, gli animali, la gazzella che mio padre aveva portato a casa, ma niente di nitido.

Tornato in Italia ho vissuto tra varie città (Roma, Firenze e Bari) fino a quando ci siamo trasferiti definitivamente a Bruxelles quando avevo otto anni. Non ho mai avuto però grandi difficoltà di integrazione. La cosa che ho sentito di più è stato il fatto di arrivare nella nuova scuola in Belgio e dover imparare il francese da zero, mentre i miei coetanei lo parlavano già perfettamente.

Frequentavo la sezione italiana della Scuola Europea e i miei compagni, in gran parte italiani, avevano già fatto lì tutta la materna e parte delle elementari, dunque non avevano problemi con la lingua.

Queste sono cose un po’ surreali, segni del nostro appartenere a più culture allo stesso tempo, e a nessuna in maniera completa…

Non ricordo particolari problemi di adattamento, quantomeno nel mio ambiente. Con l’ambiente sociale locale è stato un po’ più difficoltoso più che altro perchè la Scuola Europea accoglieva sostanzialmente figli di funzionari della Comunità Europea, diplomatici, quindi un ambiente abbastanza chiuso e privilegiato. E’ stato dunque difficile farsi degli amici belgi, ho avuto qualche difficoltà d’integrazione con il tessuto sociale locale, cosa che mi ha accompagnato in pratica per tutta la mia permanenza in Belgio.

padre espatriato

Luca e Florence

Ho fatto anche tutti i miei studi in italiano, ho studiato la letteratura, la storia italiana. Però devo dire che spesso nei miei ritorni in Italia ho avuto la sensazione di sentirmi uno straniero in patria, pur non sentendomi perfettamente collocato neanche in Belgio. All’epoca dell’adolescenza questo non sentirsi al 100% di appartenere in nessun luogo fa abbastanza soffrire. Quando andavo in Italia nei miei discorsi qualche francesismo veniva sempre fuori. In Belgio non ho mai sentito un’integrazione completa, senza arrivare a parlare di razzismo, che in questo caso sarebbe un termine un po’ forte, devo dire che il fatto di venire da un altro ambiente ti tagliava un po’ fuori, soprattutto alla mia epoca, quando l’Unione Europea era ancora un progetto, e a Bruxelles non c’era tutto il movimento e la presenza di gente da fuori che c’è adesso.

Dunque sei figlio di italiani però la tua esperienza in Italia, in termini temporali, è piuttosto limitata. Parliamo di radici… dove sono le tue?

A proposito di rientrare regolarmente in Italia: il problema che noto con i miei figli è la mancanza dei riferimenti culturali del luogo. Affettivamente i miei figli ritrovano ogni anno i loro amici e cugini, ma nei momenti di socializzazione alcuni riferimenti loro proprio non li capiscono. Mentre sono perfettamente inseriti in quello che è lo slang limegno, quando arrivano in Italia li vedo a volte un po’ persi, perchè non sono al corrente di quelli che sono i prodotti in uso, le pubblicità, i riferimenti televisivi, etc…

Soffro per la distanza che mi separa da persone con le quali ho vissuto quotidianamente e per lunghi periodi dei momenti molto intensi.

Parlando di riferimenti culturali io mi sento una strana mescolanza. In Belgio si hanno molti riferimenti francesi, un po’ a tutti i livelli. Io conosco molto bene la musica italiana, però non quanto quella francese. Ho molti riferimenti, molti più di Florence (la moglie francese di Luca, ndr) che ha vissuto in Italia.

Queste sono cose un po’ surreali, segni del nostro appartenere a più culture allo stesso tempo, e a nessuna in maniera completa…

La comprensione dei riferimenti culturali è il fondamento per sentirsi integrati: se non li capisci ti manca la base che poi forma il quotidiano, il sottinteso che dà supporto a una battuta, sul momento. Chiaramente anch’io avevo i miei riferimenti perchè alla Scuola Europea si crea tutto un microcosmo di slang, di battute, di modi di fare. E’ per questo che dico che la mia radice è sì italiana, però è anche belga, perchè in Belgio ho vissuto e nutro molto affetto per questo paese che ha una cultura molto particolare, è la patria del surrealismo, ha modo di autoderidersi molto simpatico… Però sentendomi anche in parte francese, perchè in Belgio il contatto con la cultura francese è molto forte, quindi io sono anche impregnato di conoscenze a livello musicale, di attualità, di comici, attori, film….

padre espatriato

Manuel e Ivan

Io ho sempre avuto passione per il Brasile anche se non so esattamente da dove mi arrivi. Ce l’ho da quando ero bambino, al punto che ne parlavo già nei miei temi delle elementari come il paese dove avrei voluto vivere da grande. Ho sempre associato il Brasile a una grande allegria, elemento mi ha attirato costantemente. Crescendo ho cominciato ad avvicinarmi al paese in maniera più concreta, alla sua cultura, mi interessavo, cercavo sempre di fare del volontariato in Brasile, ero assetato di contatti con persone che ci erano state. Erano gli anni in cui in Brasile si compivano le grandi lotte sindacali, quindi per me l’elemento giustizia insieme all’allegria erano una miscela interessantissima….. e dunque ho cominciato ad andarci ciclicamente in vacanza, per conoscerlo sempre meglio, fino a quando, dopo aver conosciuto Florence (a Bruxelles) abbiamo deciso di concretizzare il progetto di vivere stabilmente là a partire dal ’97.

Torniamo alla tua vita pratica. Hai appena concluso un periodo di dieci anni in Brasile. E’ stato questo il paese che hai scelto e per il quale hai lasciato il Belgio. Perchè questa passione, la scelta di trasferirsi proprio lì?

E in Brasile sono arrivati i vostri bellissimi bambini, Ivan e Manuel. Raccontaci di loro, degli spostamenti che hanno già affrontato nelle loro brevi vite…

Ivan è nato nel 2001 e Manuel nel 2004. Ivan ha vissuto due grossi cambiamenti, da Rio a Brasilia e da Brasilia a Lima, per Manuel il trasferimento da Brasilia a Lima è stato il primo. Ivan aveva un anno e mezzo quando l’abbiamo spostato da Rio a Brasilia, e contrariamente a quanto si dice, che più piccoli sono e più facile è spostarli, per lui è stato un momento molto duro. Non parlava ancora, e in poco tempo ha perso il suo ambiente, la scuolina che frequentava, la sua tata… proprio in quel momento poi ha perso il famoso doudou (vedi alla fine dell’intervista, ndr) e quindi tutto il momento è risultato abbastanza traumatico. Il trasferimento a Lima ha significato una nuova perdita di riferimenti, che però ha inciso di più su Manuel, che è più piccolo e dunque non riesce ancora a razionalizzare, né ad esprimersi sulle sue paure, le sue angoscie….

Si dice che più grandi diventano i figli e più soffrono a lasciare gli amici, ma credo che la sofferenza sia forte anche per i più piccoli, che magari però elaborano la perdita di amicizie in altri modi…

Assolutamente. Ivan ad esempio aveva un’amica a Brasilia, Irene, che era proprio la sua amica del cuore. Andavano a scuola insieme, si vedevano i fine settimana, erano proprio amici per la pelle. Adesso, nonostante non la veda da più di due anni (quindi quasi metà della sua vita), lei continua ad essere presente in qualche modo dentro di lui. Ne parla, la ricorda, la nomina, è evidentemente un suo punto di riferimento, forse anche perchè noi incoraggiamo il contatto in tutti i modi, per telefono, per mail…

Ma infatti, si dice sempre che i bambini espatriati non hanno amici d’infanzia, ma io comincio a credere che gli amici li abbiano, solo che è diverso il modo di viverli… i miei figli hanno delle pietre miliari nelle loro storie di scuole nei vari paesi… amici e amiche dei quali magari non ricordano neanche più bene i visi, ma che hanno contato talmente tanto, in quel momento, da continuare a rappresentare un’idea di amicizia che diventa un po’ universale e viaggia con loro, non credi?

Personalmente ho avuto un altro tipo di esperienza perchè per me l’amicizia è qualcosa di molto più viscerale e carnale. Con moltissimi amici del Belgio ho fatto percorsi lunghi, che sono iniziati ai miei otto anni e sono durati per molto, molto tempo. Io soffro, in effetti, per questa cosa. Soffro per la distanza che mi separa da persone con le quali ho vissuto quotidianamente e per lunghi periodi dei momenti molto intensi. Però naturalmente il modo di sentire dei nostri figli dovrà necessariamente cambiare. Sono i figli delle nuove tecnologie, di un tempo in cui ti puoi sentire, vedere, mandar foto, osservarti in diretta con la webcam indipendentemente dalla distanza. Poi molto dipenderà anche da come i figli elaboreranno il distacco, da come reagiranno individualmente.

padre espatriato

Luca e famiglia in Perù

Parlando di amici, è importante aiutare i propri figli a mantenere i contatti per mostrar loro che c’è una continuità nella vita, si cambia paese ma gli affetti rimangono, non sono cancellati da uno spostamento. E che anche se in futuro questi affetti non li ritrovi, continui comunque a coltivarli in altro modo, a farli vivere. Chiaro che non è la stessa cosa che viverli nel quotidiano, ma come si diceva prima, le nuove tecnologie adesso aiutano molto. Come espatriati dobbiamo fare il possibile per mantenere questo tipo di contatto, mantenere dei riferimenti è fondamentale.

Parliamo di te in rapporto al cambiamento: tu sei arrivato qui a Lima senza un lavoro e hai dunque seguito in prima persona l’ambientamento dei figli e l’assestamente logistico della famiglia. Non ti ha pesato il fatto di essere sempre a contatto con loro in questa fase, vivendo il loro disagio quotidianamente?

Se devo essere sincero ho trovato dura tutta la transizione, che comprende il trasloco pratico, i bambini, il mio adattamento personale. Forse il contatto che ho coi bambini è meno viscerale rispetto a quello che può avere una madre, e sarà anche per questo che l’aspetto figli non è quello che mi è pesato di più, anche se il primo mese è stato molto complicato per Ivan, andava a scuola con il trasporto scolastico, non voleva, piangeva, c’è stato l’impatto con la lingua nuova.

Tutta la famiglia si sta risettando in contemporanea e il fatto di non avere un ruolo “pubblico” ben definito ti mette automaticamente più al centro del processo.

Per me il cambio è stato duro globalmente. La classica invidia che si prova nel vedere il/la consorte uscire al mattino e andare a lavorare fino a sera l’ho provata anch’io, ma non solo in relazione ai bambini: è il tutto nuovo che va affrontato, coordinato. Chiaramente i bambini sono al centro, sono indifesi, tu ti senti un po’ il loro scudo ma allo stesso tempo non molto adatto in questo ruolo perchè tu stesso stai affrontando il cambiamento che influisce su di te. Ad un certo punto mi sono sentito il mediatore, e non necessariamente all’altezza di esserlo, in tutto: nel centro tra il disagio dei bambini, il nuovo lavoro della moglie, con il carico di tensione, positiva e negativa, che questo implica, la gestione pratica del cambiamento. Tutta la famiglia si sta risettando in contemporanea e il fatto di non avere un ruolo “pubblico” ben definito ti mette automaticamente più al centro del processo.

Quando pensi al fatto che stai offrendo ai tuoi figli una vita di molti cambiamenti, dunque di ricchezza in termini umani, culturali, linguistici, etc. però anche di grossi traumi, grossi stacchi, momenti di rottura, che persone vedi proiettate nel futuro? Dentro di te prevale l’idea che li stai arricchendo o ti viene l’ansia per il fatto che magari stai creando degli “sradicati”?

Proietto un po’ in loro la mia esperienza e i miei desideri. A me questa vita di saltare di paese in paese ogni quattro anni non piace più di tanto. Mi fa un po’ paura, per me, per i miei figli. Mi piacerebbe che avessero una radice solida. Per loro poi è ancora più complicato, perchè hanno una grande varietà di riferimenti: io e Florence siamo di nazionalità diverse e ognuno di noi già abbondantemente sradicato. Dunque non so cosa pensare per loro, se sia meglio che saltino di paese in paese, in modo da crearsi una nuova identità, l’identità dello sradicato. A me piacerebbe che un giorno scegliessero un paese, ricercassero una radice, magari in Brasile…

Mi domandavo anche questa cosa, rispetto alle radici: ma è così fondamentale averne? Io ho parlato con alcuni giovani che sono cresciuti cambiando costantemente paese, e pur non sentendosi appartenere a nessuna cultura definita, non soffrono di questa situazione, perchè hanno identificato la loro definizione in questo “non essere definiti”. Dunque mi chiedo, se questo “non essere” viene vissuto positivamente, se anche i nostri figli sentiranno la loro radice nella loro policulturalità, non possiamo farci passare questa paura di creare delle persone che si sentono come foglie al vento?

Sì, in effetti io, pur rimpiangendo una certa “unicità”, sono cosciente che mi piace molto avere dei riferimenti variati ma al contempo forti. Se sto con un francese, sento un’immediata empatia, perchè la Francia mi piace e i suoi riferimenti culturali, soprattutto musicali, sono stati una costante della mia crescita. Allo stesso modo, però, sento una grande affinità col Brasile, paese che amo e nel quale ho vissuto molto a lungo. Anche questa è sicuramente una ricchezza.

Nota mia:

Il doudou: una sera ero a cena da amici con Luca e Florence, e il discorso è caduto sulla figura del doudou in Francia. Il doudou è il peluche a cui i bambini piccoli si affezionano e portano sempre con sé. Luca ci spiegava che questa pratica, tipicamente francese, è incoraggiata e quasi instillata nei bimbi piccoli, e con riferimenti assai comici e divertenti aneddoti, ci spiegava perchè lui nutre nei confronti del doudou una grande antipatia. Ci raccontava ad esempio che in Brasile, in più di un’occasione, gli toccava uscire di notte con la pila e setacciare il grande giardino alla ricerca del doudou che i figli avevano abbandonato, per ricordarsene al momento di andare a letto. Quando durante l’intervista ha nominato il fatto che Ivan avesse perso il doudou proprio nel momento di passaggio da Rio a Brasilia, non abbiamo potuto fare a meno di ricordare i divertenti racconti di quella serata.

Claudiaexpat

 

Intervista raccolta da Claudia Landini (Claudiaexpat)
Lima, Perù
Febbraio 2007

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