Home > Famiglia e Bambini > Crescere in espatrio: sfide identitarie delle “seconde generazioni”

Nell’articolo di questo mese continuerò ad occuparmi delle sfide identitarie delle “seconde generazioni” ma l’attenzione sarà rivolta specificamente ai figli di coloro che cambiano frequentemente paese: per questi l’esperienza di espatriare è una costante che si ripete per un tempo indefinitamente lungo.

Pinaexpat

Anche se già trattato nell’articolo sulla separazione dal paese d’origine vale la pena ricordare che le condizioni esterne in cui si realizza l’espatrio sono molto importanti e possono essere significativamente diverse l’una dall’altra, qui mi limito a dire che quanto più lontano e culturalmente diverso è il paese verso cui si va e tanto più impegnativo sarà crescere in espatrio.

La fonte principale di cui mi servirò per trattare questo tema sarà Expatclic, dove mi sono immersa a leggere articoli, interviste e forum sia dell’area italiana che di quella francese.

E’ Expatclic.com dunque che ha prodotto, attraverso il contributo delle sue frequentatrici e redattrici, ma anche dei loro amici e familiari, la trama del lavoro che restituisco in quest’articolo.

Ho scelto di organizzare il lavoro per temi attorno a delle parole dense, ossia parole emozionalmente rilevanti, ricorrenti negli interrogativi che animano gli scritti di Expatclic:

Famiglia
Cultura
Amici
Casa

Queste sono solo alcune delle parole dense che si incontrano leggendo nel sito, sulle quali spero di ritornare in futuro arricchendole di nuovi contenuti che il generoso e variegato mondo di Expatclic produrrà. Col tempo mi occuperò anche di quelle che, sebbene già presenti sul sito non hanno trovato posto in questo articolo per esigenze di brevità.

Famiglia

Nelle famiglie che vivono espatriando è frequente osservare come i legami familiari siano particolarmente stretti, la famiglia fornisce quel porto sicuro di cui i bambini hanno bisogno e quando la vita si svolge in luoghi sempre diversi, il porto sicuro ha una funzione particolarmente rassicurante e stabilizzante. Questo guscio, o nido, talvolta può essere difficile da abbandonare.

Ho patito molto questi giri per il mondo e il fatto che la mia famiglia fosse sempre isolata. Non avevo luoghi dove “mettere” i ricordi. Questo viaggiare ci ha unito molto dall’interno, ma ho dovuto lottare per trovare un mio posto “fuori” dal nido familiare.

(Annaparigi – post in Psicologia d’Expat – gennaio 2007)

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Ad esempio nella mia famiglia, che ha viaggiato tanto quando eravamo piccolissimi, i legami affettivi tra tutti sono un pochino esagerati, c’è un attaccamento fortissimo di tutti verso tutti, anche ora che siamo adulti. Come se la famiglia fosse “la patria”, l’unica vera.

 (Annaparigi – post in Psicologia d’Expat – febbraio 2007)

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La famiglia è la nostra cellula e questo fa sì che siamo molto legati, forse troppo a volte… bisogna far posto agli altri.

(Stéphanie in : Enquêtes et dossiers enfants expats. Petits Expats devenus Grands – Pascalexpat – Novembre 2003)

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Per contro io penso che questo abbia apportato una certa unità alla nostra famiglia, che è molto legata.

(Elodie in : Enquêtes et dossiers enfants expats. Petits Expats devenus Grands – Pascalexpat – Novembre 2003)

La famiglia in espatrio, infatti, è sola nello svolgere le funzioni di accudimento che le sono proprie e l’assenza di altri interlocutori stabili nel tempo fa sì che il suo ruolo nella costruzione identitaria del bambino sia molto più determinante. Dobbiamo pensare che se dopo vent’anni di espatrio l’adulto è passato attraverso un processo di cambiamento identitario che ha ridefinito la sua identità culturale e le sue appartenenze, il bambino che cresce in espatrio costruisce la sua sempre e solo nel contesto di cambiamento, dove l’unico riferimento stabile è proprio la famiglia.

Io non ho amiche dell’asilo, non conosco “da sempre” il macellaio né il fornaio, né i vicini. Non avevo veramente un “chez moi”.

(Emmanuelle in : Enquêtes et dossiers enfants expats. Petits Expats devenus Grands – Pascalexpat – Novembre 2003)

Per capire meglio il ruolo della famiglia in relazione alla costruzione identitaria propongo una rielaborazione di quanto già scritto sul cambiamento identitario che si realizza con l’emigrazione e di ripensare i tre legami di integrazione osservandone le implicazioni per i bambini che crescono cambiando paese ogni tre o quattro anni.

Per i Grinberg (1) la costruzione del sentimento di identità si realizza attraverso tre vincoli di integrazione, ossia:

Spaziale, che favorisce il sentimento di individuazione poiché differenzia tra Sé e non-Sé, concetto che nell’altro articolo ho semplificato con: io sono io e non un altro.

Temporale, che unisce le rappresentazioni del Sé nel tempo, ossia le idee che ci si forma di se stessi nel tempo riconoscendone la continuità, così che anche con il passare degli anni ciascuno continua a sentirsi se stesso.

Sociale, che rende possibile il sentimento di appartenenza al gruppo sociale che riconosce e restituisce identità al singolo.

Ora, tutti e tre questi vincoli, nel nostro caso, sono garantiti quasi esclusivamente dalla famiglia.

Infatti:

– Non vi sono luoghi capaci di restituire ricordi che vadano al di là dell’ultimo cambio-paese, solo i familiari possono rievocare insieme ai loro bambini luoghi del passato che ricordano quelli presenti per identità o, al contrario, per differenza.

– Non vi sono amici o conoscenti che ricordino loro quella prodezza o quella marachella fatta cinque anni prima, solo i familiari possono conservarne memoria.

– L’immagine che gli estranei rimandano loro è legata al presente e li accompagnerà solo per qualche anno, ancora una volta solo la famiglia testimonierà della loro crescita. L’appartenenza sociale e culturale coincide in larga misura con quella familiare.

Scrive Anna in un post:

E’ buffo, ma ora se ci penso è come se io avessi vissuto una vita dall’interno. L’interno della famiglia, l’interno delle case. Eppure sono una persona apertissima e curiosa e non c’è niente che ami di più che osservare il mondo.

(Annaparigi – post in Psicologia d’Expat – febbraio 2007)

Non dimentichiamo inoltre che anche i genitori sono impegnati, dentro e fuori di sé, nel processo di adattamento al cambiamento e che ciò rende più complessa la loro funzione di protezione e orientamento nei confronti dei figli, come ho già scritto nel precedente articolo.

Riporto qui uno stralcio dell’intervista a Luca, che ha vissuto l’espatrio prima da figlio poi da genitore, genitore che ha affrontato il cambio paese senza avere già un lavoro, al seguito della moglie, dunque con un vissuto più simile a quello delle donne in espatrio e per questo particolarmente interessante.

Per me il cambio è stato duro globalmente. La classica invidia che si prova nel vedere il/la consorte uscire al mattino e andare a lavorare fino a sera l’ho provata anch’io, ma non solo in relazione ai bambini: è il tutto nuovo che va affrontato, coordinato. Chiaramente i bambini sono al centro, sono indifesi, tu ti senti un po’ il loro scudo ma allo stesso tempo non molto adatto in questo ruolo perchè tu stesso stai affrontando il cambiamento che influisce su di te. Ad un certo punto mi sono sentito il mediatore, e non necessariamente all’altezza di esserlo, in tutto: nel centro tra il disagio dei bambini, il nuovo lavoro della moglie, con il carico di tensione, positiva e negativa, che questo implica, la gestione pratica del cambiamento. Tutta la famiglia si sta risettando in contemporanea e il fatto di non avere un ruolo “pubblico” ben definito ti mette automaticamente più al centro del processo.

(Luca intervistato da Claudiaexpat in Figli ed espatrio – Febbraio 2007)

Cultura

A differenza della migrazione verso un paese dove si vivrà a lungo, nell’espatrio l’elemento chiave non è tanto l’integrazione interna della doppia appartenenza culturale quanto il non sentire in maniera sufficientemente calzante alcuna appartenenza.

Certo se viene loro chiesta la nazionalità, questi ragazzi non avranno esitazioni a rispondere “italiana” o “francese”, a seconda della nazionalità dei genitori.

Le esitazioni crescono a domande quali di dove sei? o “da dove vieni?” o ancora “di dove ti senti?” soprattutto se il contesto in cui viene posta la domanda consente di rispondere in maniera articolata.

‘Parliamo del tuo senso di appartenenza: com’è il tuo rapporto con l’Italia, ti senti italiano?’

L’Italia la sento come la mia patria, come la mia base. Ma temo di non potermi confrontare con altri cittadini italiani perchè non ho le stesse conoscenze di base della cultura italiana. Comunque è lì che ho la mia famiglia, e l’unico mese all’anno che passo in Italia è sempre molto bello per me.

(…)

Il fatto di avere due genitori dello stesso paese rafforza il senso di appartenenza. In casa non sono mai confrontato con la scelta di altre culture, il mio punto di riferimento è sempre l’Italia, perchè è lì che entrambi i miei genitori convergono

(Alessandro, 15 anni, intervistato da Claudiaexpat in Figli ed espatrio – Settembre 2006)

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Ho sempre avuto difficoltà a rispondere alla domanda: “da dove vieni?”

(Emmanuelle in : Enquêtes et dossiers enfants expats. Petits Expats devenus Grands – Pascalexpat – Novembre 2003)

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E’ un po’ come il fatto di sentire che non hai una “casa”, un paese proprio… Quando mi chiedono di dove sono non so mai cosa dire, a volte sento il bisogno di “appartenere” da qualche parte, ma poi mi passa, anche perchè in realtà è molto bello sentirsi un “miscuglio” di tante culture.

(Keiko, 20 anni, intervistata da Claudiaexpat in Figli ed espatrio – Dicembre 2006)

L’identità culturale trasmessa dai genitori è senz’altro fondante l’identità del bambino ma non essendo sostenuta dall’ambiente esterno che la rinforza e gli permette di sperimentarla in prima persona, reinterpretandola nei rapporti coi coetanei, con gli insegnanti, con gli estranei per strada, essa risulta “di seconda mano”.

Questo implica che al bambino manchino quegli elementi della cultura d’origine dei genitori relativi all’ambito extrafamiliare che vengono appresi implicitamente e inconsapevolmente.

E’ in relazione a questa “carenza” che quando si trovano in patria fuori dall’ambito familiare i ragazzi sperimentano quel senso di estraneità così spesso riferito nelle diverse testimonianze.

Infine, direi che vivere all’estero mi ha dato una certa apertura di spirito ma mi ha tolto una certa “identità”, poiché essendo stata a lungo con persone di differenti nazionalità, io non mi sento veramente francese. E’ una mentalità che non padroneggio completamente… Diciamo che mi sento piuttosto impregnata di diverse culture. Ed è questo che fa la mia forza, penso.

(Séverine in: Enquêtes et dossiers enfants expats. Petits Expats devenus Grands – Pascalexpat – Novembre 2003)

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Per contro ero considerata un po’ come un curioso animaletto. A volte mi divertivo a dire che vivevamo in case con tanti di quei leoni intorno che ne ero stufa! Ma ho un po’ sofferto di essere diversa: era chiaro che io non avevo le stesse abitudini e i miei vestiti, i miei gusti tutto era un po’ troppo “di lusso” rispetto agli altri.

(Catherine in : Enquêtes et dossiers enfants expats. Petits Expats devenus Grands – Pascalexpat – Novembre 2003)

Più su ho usato la parola “carenza” tra virgolette perché non si tratta di una carenza in senso proprio dato che il bambino in contesto di espatrio, pur non acquisendo gli impliciti della cultura dei genitori, acquisirà quelli del luogo in cui vive. Operazione questa più complessa per i Nostri sia rispetto ai coetanei autoctoni che ai figli di migranti che vivono stabilmente in un solo paese.

Per i figli di espatriati girovaghi infatti, che su Expatclic.com sono la maggioranza, gli elementi culturali impliciti cambiano ad ogni cambio di paese per cui i ragazzi sentono sempre un certo grado di estraneità rispetto ai coetanei ma allo stesso tempo possiedono una ricettività e una plasticità che permette loro di capire rapidamente codici culturali nuovi e di padroneggiarli sufficientemente bene.

Inoltre il fatto di aver avuto questo tipo di vita ti rende differente dalla maggior parte della gente, e anche questo è un punto a favore quando si conoscono nuove persone: ci si sente diversi, si sente di sapere più cose su molti temi, nel senso che proprio le si è conosciute in prima persona, le si è assorbite vivendole. Ci si sente persone più complete.

(Keiko, 20 anni, intervistata da Claudiaexpat in Figli ed espatrio – Dic 2006)

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Essere confrontato a gente di tutti i tipi è anche utile perchè uno deve analizzare di più cosa dire, in che lingua dirlo, e impara dunque ad adattarsi di più alla gente, al mondo in generale.

(Alessandro intervistato da Claudiaexpat – settembre 2006 in Figli ed espatrio)

E’ molto interessante quello che dice Alessandro: in espatrio si impara a non dare per scontata la cultura e dunque ad assumere naturalmente una posizione interculturale.

Ha proprio ragione suo padre quando dice:

E’ meraviglioso vedere i miei figli crescere saggi, aperti, permeabili, con una capacità di adattamento e di lettura dell’esistente ad un livello ben differente dai loro coetanei. Vero, pagano lo scotto di non riconoscere i mille riferimenti non detti di una cultura, ma spaziano con agilità e libertà d’opinione su varie culture, con un’apertura di spirito ed una disponibilità al conoscere che invidio loro molto.

(Giorgio in Gli uomini espatriati – L’espatrio a sud del mondo – Gennaio 2007).

Il mancato assorbimento degli elementi culturali impliciti del paese d’origine è d’altro canto amplificato o attenuato dal sistema scolastico che si sceglie di far frequentare ai figli. Se i bambini frequentano una scuola della stessa nazionalità dei genitori hanno la possibilità di praticare la lingua d’origine anche attraverso i coetanei, inoltre lingua, letteratura, storia ecc. saranno apprese in modo simile ai loro coetanei in patria.

In espatrio però l’attenzione alla continuità e stabilità del sistema scolastico ha la priorità sull’esigenza di scolarizzare i figli nella scuola della nazionalità d’origine per cui si sceglie un sistema che è possibile trovare anche negli spostamenti a venire, in questo modo si assicura ai bambini la continuità a livello scolastico e ciò risparmia loro il doversi ogni volta riadattare, oltre che a compagni e insegnanti, anche a una lingua e a una didattica sempre diverse.

La sola cosa costante nel corso di quegli anni è stata la scuola (francese). Si cambiavano scenari, ambienti, amici… ma il sistema scolastico era sempre lo stesso e trovo che questo sia importante: almeno una cosa che conoscevo!

(Emmanuelle in : Enquêtes et dossiers enfants expats. Petits Expats devenus Grands – Pascalexpat – Novembre 2003)

Poiché la scuola italiana è poco presente nel mondo, nella maggior parte dei casi la scelta degli italiani cade su altri sistemi scolastici (francese, americano, internazionale sono tra i più scelti),

Per la maggior parte dei bambini italiani dunque, non avendo studiato in una scuola italiana, oltre agli impliciti culturali saranno loro estranei molti contenuti espliciti appartenenti al patrimonio culturale nazionale.

Amici

Il doversi continuamente separare dagli amici, rappresenta un po’ in tutte le testimonianze l’aspetto più duro da affrontare crescendo in espatrio, soprattutto in età adolescenziale. Gli amici rappresentano un banco di prova per il bambino e per l’adolescente, essi restituiscono un’immagine di sé non filtrata dalla protezione genitoriale, basata su principi di realtà e di reciprocità. Col tempo, quando si vive nello stesso posto, essi diventano anche dei riferimenti affettivi importanti e meno impegnativi di quelli familiari. Con il cambio paese i figli soffrono ripetutamente per la perdita di amici e devono affrontare contemporaneamente l’elaborazione del lutto e la costruzione di nuove amicizie.

Scrive Racamier (2): “Non dimentichiamo, peraltro, che in ogni momento dell’infanzia (e anche dell’età adulta), la crescita è un lavoro; ogni briciola di crescita è un pezzo di lutto, un lembo di sofferenza: una perdita e una pena.”

Oserei dire che l’espatrio produce un rimpatrio all’interno del proprio mondo psichico facendo ripercorrere sfide che appartengono allo sviluppo psicologico universale;

Per bambini e adolescenti tale specularità tra mondo interno e mondo esterno è particolarmente intensa poiché avviene in tempo reale ossia contemporaneamente ai momenti di passaggio della loro età.

Il dolore per la separazione dagli amici è l’aspetto critico dell’espatrio che ritroviamo indistintamente in tutte le testimonianze a prescindere dall’età, dal sesso e dalla nazionalità. Ne riporto qualcuna:

La difficoltà più grande non sta nel cambiare scuola e professori ma nel farsi dei nuovi amici. Senza amici è difficile avere dei buoni risultati scolastici. Farsi ogni volta nuove amicizie è difficile, soprattutto inserirsi in un gruppo già formato. Questa è la difficoltà più grande del cambiare paese e scuola.

(Alessandro, 15 anni, intervistato da Claudiaexpat in Figli ed espatrio, settembre 2006)

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Non ne voglio assolutamente ai miei genitori per la scelta che hanno fatto, al contrario. Ho sempre pensato che fosse una fortuna. Ho scoperto molti paesi, città, culture, religioni, lingue (inglese, spagnolo, arabo) e penso che questo sia un vantaggio. Il solo rimpianto è la perdita di amici. Ahimé, ho perduto molti amici ma ho comunque avuto la fortuna di conoscerli.

(Armelle, 15 anni in : EnquÊtes et dossiers enfants expats. Petits Expats devenus Grands – Pascalexpat – Novembre 2003)

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L’idea che mi sono fatta ultimamente sulla mia infanzia all’estero è quella di aver vissuto qualcosa di straordinario, di unico. Ci sono stati alti e bassi come ovunque ma questo non mi ha impedito di aver vissuto dei momenti bellissimi. E’ vero che manca di non rivedere LA migliore amica d’infanzia, di non avere la casa della mia infanzia, ecc. Ma d’altro canto, ci portiamo dietro un bagaglio molto più pesante, più ricco, tale da non avere rimpianti.

(Marine, 17 anni, in : EnquÊtes et dossiers enfants expats. Petits Expats devenus Grands – Pascalexpat – Novembre 2003)

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La mia infanzia all’estero è stata sicuramente una grande opportunità per i viaggi, la scoperta di altre culture, un arricchimento personale enorme ma c’è qualche bemolle come:

– mancanza di stabilità (amici, “entourage”); molto duro da vivere soprattutto verso l’adolescenza. Secondo me, l’espatrio dovrebbe fermarsi in terza media e bisogna avere un posto dove tornare ogni anno per le vacanze.

– Perdita di radici: l’eterna domanda “da dove vengo?”

Infine, un “vantaggio” di tutta la mia infanzia è questa facilità che mi ritrovo a perdere amici e rifarmente di nuovi.

Insomma, trovo che l’espatrio sia una grande scuola di zapping: zapping di paesi, di clima, di lingue, di casa, di scuola, di amici…

(Thomas, 19 anni, in : EnquÊtes et dossiers enfants expats. Petits Expats devenus Grands – Pascalexpat – Novembre 2003)

Chiudo questo paragrafo con la testimonianza di Valeriexpat, figlia di espatriati fino all’età di 12 anni e madre espatriata a sua volta, è interessante perché mette in rilievo il ruolo delle nuove tecnologie nel gestire le amicizie in espatrio:

Ho subìto io stessa delle perdite di amici a causa dei nostri trasferimenti, ma noi siamo comunque riusciti a mantenere fino ad oggi degli amici conosciuti all’età di cinque anni (inglesi e americani)! Questo presuppone un investimento, una responsabilità dei genitori, tanto più facile se i genitori degli amici sono amici tra loro. I miei genitori sono restati amici per parecchi anni con queste persone, questo ci ha permesso di rivedere questi bambini durante le vacanze, noi andavamo da loro, nel loro paese. In seguito, diventati adulti, siamo stati noi a continuare a rivederci e a scriverci per aver cura di questa amicizia.

D’altra parte vorrei insistere sul ruolo di “facilitatore” di internet oggi. Ai miei tempi non c’era che la posta e le telefonate (molto care). Oggi mi scrivo con estrema facilità con le mamme degli amici di mia figlia. Ci si parla su skype, ci si invia delle e-mail. E questo mi permette di rivederle quando torno in Francia per le vacanze. Io penso, dunque, che internet e i genitori possano cambiare la configurazione dell’amicizia in espatrio.

(Comunicazione via e-mail di Valeriexpat – marzo 2007)

Casa

La casa è un luogo psicologicamente importante, un luogo investito emozionalmente, sentirsi a casa significa sentirsi al sicuro, sentirsi protetti ed è uno stato d’animo molto legato al sentirsi in famiglia, “casa” è per antonomasia il luogo della famiglia, è uno spazio di transizione tra sé e il mondo esterno.

Sono generalmente due i luoghi in cui i bambini e i ragazzi cresciuti espatriando si sentono “a casa”:

la casa in cui, in quel momento, vivono con i genitori e la casa in patria dove tornano periodicamente o, in alternativa, la casa dei nonni.

Keiko rivela in modo trasparente l’identificazione tra “casa” e “genitori” e soprattutto il bisogno di sentirsi a casa nei momenti di fragilità:

Certo, quando sono un po’ giù di tono, o malata, vorrei essere a casa, ma mi basta parlare al telefono con loro per sentirli vicini, e poi ho sempre i miei amici, che per me sono un po’ come la mia famiglia qui.

(Keiko, 20 anni, intervistata da Claudiaexpat in Figli ed espatrio – Dicembre 2006).

L’espressione francese “chez soi” esprime meglio di quella italiana la simbolizzazione affettiva della casa come luogo del proprio sé.

In espatrio la casa cambia ad ogni cambio paese e non vi è un referente stabile che rinvii simbolicamente al chez soi. Per questa ragione la casa in cui si vive e in cui ci si considera “a casa” non rappresenta affettivamente il chez soi quale luogo di appartenenza del proprio Sé, ma la consapevolezza di ciò si delinea solo col passare degli anni.

Io non avevo veramente un “chez moi”. All’inizio mia madre era ancora a Lima, quindi quando io ci ritornavo mi sentivo “chez moi”. Ma una volta che lei è partita in Grecia non era più la stessa cosa. Credo che sia la sola cosa negativa di questa esperienza.

(Emmanuelle in: Enquêtes et dossiers enfants expats. Petits Expats devenus Grands – Pascalexpat – Novembre 2003)

L’aspetto che sottolinea Emmanuelle è molto pregnante nel vissuto dei ragazzi cresciuti in espatrio, quando la casa dei genitori non è più quella in cui si è vissuti insieme si perde il chez moi o, più propriamente, il chez nous condiviso con i genitori e quell’identificazione “casa-genitori” si sfalda….

Ci mancano forse dei riferimenti stabili a volte, un desiderio di rientrare “a casa” ma senza sapere dov’è.

(Stéphanie in : Enquêtes et dossiers enfants expats. Petits Expats devenus Grands – Pascalexpat – Novembre 2003)

L’altro luogo che ho indicato come capace di procurare quel sentimento di chez soi è la casa in patria o la casa dei nonni, queste anche se vissute prevalentemente come luoghi di vacanza rivestono una funzione importante legata al sentimento di continuità e stabilità nel tempo.

E’ il luogo dove periodicamente si ritorna, quello che rimane più o meno simile mentre gli altri luoghi di riferimento cambiano e anche se non sono luoghi in cui si sperimenta il quotidiano il loro valore psichico è dato dalla valenza simbolica legata alle proprie origini. Stabilità e legame con le origini sono quindi due funzioni della casa dei nonni e quando le condizioni lo consentono è rassicurante passare qui il periodo di transizione tra un paese e l’altro, tra una casa e l’altra.

Da piccola, quando viaggiavamo, le visite ai nonni (buffamente tutti e quattro in due palazzi vicini) erano dei momenti ricchissimi di un sapore di “casa” che non sentivo altrove. Era come se attraverso le due case, i differenti arredi io potessi capire i miei genitori e – di conseguenza – me.

(Annaparigi – post in Psicologia d’Expat – febbraio 2007)

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Prendevamo l’aereo, l’estate, per tornare in Francia dai miei nonni. La loro casa era il nostro solo porto di attracco in Francia e fu lacerante quando è stato necessario vendere la casa: malgrado tutto si ha bisogno di radici nel proprio paese.

(Stéphanie in : Enquêtes et dossiers enfants expats. Petits Expats devenus Grands – Pascalexpat – Novembre 2003)

La casa riveste, dunque, una funzione importante nella stabilità affettiva e identitaria delle persone e ciò ci dice anche molto del perché nella scelta della casa dove andare a vivere, particolarmente in espatrio ma non solo, tanto spazio hanno le sensazioni, le emozioni, l’atmosfera che una casa è capace di trasmettere.

Ci sono dei bellissimi post nei forum di Psicologia d’Expat dedicati alla scelta della casa ed è significativo che sia stata scelta proprio Psicologia d’Expat e non un’altra area per scrivere questi pensieri.

Il sentimento di essere a casa, in particolare per le persone espatriate, spesso coincide invece che con un luogo fisico, con un’idea, un oggetto, una passione.

Un po’ come per i bambini piccoli l’oggetto transizionale – la “copertina di Linus” o, come lo chiamano in Francia, il “doudou” (un orsetto, il ciuccio, uno straccio) – questi referenti simbolici, che assumono la funzione di spazio magico, accompagnano la transizione tra mondo interno e mondo esterno. Avrò modo in futuro di riprendere questo tema, per ora mi serve solo per aggiungere un tassello al significato simbolico della casa e capire meglio quello che vuol dire Anna quando scrive che per lei, che è un’illustratrice di libri per bambini, “casa” sono i fogli da colorare e… li compra solo in Italia!

Con questo chiudo, senza volerlo concludere, il mio viaggio tra le parole dense dell’espatrio, un viaggio che muove ancora i primi passi e che mi auguro ci guiderà , tappa dopo tappa, a conoscere e capire meglio questo ancora poco esplorato mondo d’expat.

Oltre a ringraziare Claudiaexpat e Pascalexpat che, l’una per la redazione italiana e l’altra per quella francese hanno raccolto e organizzato le interviste da cui ho tratto la maggior parte delle testimonianze, ringrazio infinitamente, in ordine di citazione:

Anna
Stéphanie
Elodie
Emmanuelle
Luca
Alessandro
Keiko
Séverine
Giorgio
Armelle
Marine
Thomas
Valeriexpat

Riferimenti bibliografici

Grinberg L. e R. Psicoanalisi dell’emigrazione e dell’esilio, 1990 – Franco Angeli – Milano. Titolo originale: Psicoanalisis de la migracion y del exilio -Paidos, Baires, 1978.

Paul-Claude Racamier – Il genio delle origini – 1993, Raffaello Cortina, Editore (pag.44). Titolo originale: Le génie des origines – 1992 Editions Payot.

D.W. Winnicott – Gioco e realtà – 1974, Armando Armando Editore. Titolo originale Playing & Reality – Tavistock Publications, 1971 London.

Pina Deiana (Pinaexpat)
Roma
Aprile 2007

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