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Francesca Isabella Bove è psicologa e vive a Barcellona dove, insieme a una sua collega italiana, Alice Dondi, ha fondato un gruppo di psicologia internazionale che offre servizi di supporto e assistenza psicologica in diversi idiomi. Per questo speciale aggiornamento self-made, riflette insieme a noi su alcuni aspetti legati alla scelta di abbandonare la propria carriera e seguire il partner in espatrio. Grazie Francesca!!!

“L’illusione più pericolosa è quella che esista soltanto un’unica realtà. “
Paul Watzlawick

Un tema particolarmente rilevante nel vissuto delle donne, ma anche di alcuni uomini, che hanno scelto di seguire i/le loro partners negli spostamenti in giro per il mondo, è sicuramente quello relativo alla carriera, allo sviluppo di una professione o anche più semplicemente alla ricerca di un lavoro, il quale, anche laddove non necessario dal punto di vista economico, possa essere parte integrante dello sviluppo dell’identità e della auto-realizzazione personale e sociale.

Gli studi sui sintomi di disagio che compaiono durante le migrazioni denunciano livelli di stress più alti fra le donne che fra gli uomini (Espìn, 1999). Tra le variabili in gioco in tali fenomeni viene spesso considerato il grado di partecipazione nella scelta del viaggio o del senso di assunzione soggettiva della decisione (Eldestein, 2002), il quale implica la coscienza reale delle possibilità e delle difficoltà alle quali si potrebbe andare incontro.

Molti dei problemi che derivano dal rinunciare al proprio lavoro per amore di un progetto di vita che privilegia la vicinanza al coniuge o il mantenersi uniti alla propria famiglia, sono legati alla perdita di una funzione professionale, ma ancora più spesso alla perdita di un ruolo che si considera fondante la propria identità (Achotegui, 2000).

Se per esempio una giovane architetto rinuncia al suo studio avviato, alla sua rete di clienti, ai suoi contatti per seguire il suo compagno nell’espatrio, potrà soffrire perché si sente privata della sua funzione (lavorare con i suoi clienti, progettare, formarsi, etc..) ma potrà soffrire, al contempo, per vedersi privata di un aspetto della sua identità di professionista o del potersi presentare ed essere riconosciuta anche come architetto.

Un ulteriore importante aspetto riguarda la possibilità di autopercepirsi persone dotate di autonomia economica, potendo contribuire allo sviluppo sociale attraverso il proprio lavoro.

L’identità professionale costituisce quindi una profonda percezione della propria adeguatezza rispetto ad una funzione e al ruolo che ne consegue, in tal senso non è disgiunta dall’identità personale come risultato di diversi processi psicologici, intrapersonali ed interpersonali, che si strutturano nella conoscenza di se stessi. Ne consegue che una perdita temporanea o permanente della propria identità professionale possa avere delle ripercussioni sull’intera auto-rappresentazione e nel modo di stare in rapporto con se stessi e con gli altri, implicando la necessità di un riassetto profondo delle variabili personali e relazionali.

Il timore che viene spesso riportato dalle donne espatriate è proprio quello di passare lunghi periodi senza poter esercitare attivamente la propria professione, in questo senso l’architetto X potrà trasformarsi con il passare degli anni in una persona che “ha studiato architettura” senza mai aver avuto la possibilità di esercitare quel lavoro. Quest’ultimo aspetto è tanto più presente nell’esperienza di alcune donne che sono partite appena laureate, o che comunque non avevano avviato un progetto professionale nel paese d’origine prima della partenza, pur avendo investito molto nella formazione e avendo immaginato un futuro professionale come spazio di realizzazione delle proprie attitudini.

Molte donne che scelgono la strada dell’espatrio non per lo sviluppo della propria carriera, ma per quella del partner, riferiscono spesso di sentirsi strette in una morsa di scelte. Diceva una mia cliente: “O il lavoro o la possibilità di una vita insieme, o qui con me stessa o là con lui, ma di me stessa là non so..”.

In questo scenario, la scelta spesso passa attraverso importanti rinunce e perdite, le quali, se non elaborate e debitamente compensate con nuove possibilità di sviluppo personale, possono condurre all’eterno rimorso, al guardarsi continuamente indietro per capire come sarebbe stato se…  e solo se!

Effettivamente il termine ex-patria (fuori dalla patria) rimanda ad una dimensione “ex” cioé fuori di..., non qui e non ora… quindi lontano dalla realtà attuale e che potrà esistere (o è esistito) in un là ed allora. Si tratta di una dimensione psicologica difficile da vivere, se pensiamo alla sua natura intrinsicamente inafferabile la quale spinge a guardare sempre da un’altra parte, avanti e indietro, minando continuamente il senso della stabilità.

Capita spesso che la maternità arrivi per alcune donne come un dono e un’opportunità di sviluppo personale: la funzione di madre alla prese con i figli piccoli può arrivare ad assorbire grandi quantità di energie canalizzando la creatività e gli sforzi in direzione della crescita dei bambini. Le donne espatriate sono spesso delle madri che assumono la funzione di colonna portante e collante di nuclei familiari, spesso caratterizzati dallo sforzo paterno sul fronte del mantenimento di uno status socio-economico ottimale per la famiglia (Losi, 2000). Come a ripristinare una sorta di famiglia tradizionale, con la classica ripartizione dei doveri tra madre/sposa e uomo/lavoratore. Sembrerebbe quasi che, in un contesto atipico com’è quello dell’espatrio, dove spesso non si avverte la possibilità di creare sicurezze per un lungo termine, la casa e la famiglia diventino il luogo delle certezze forti e a volte anche dei ritorni a forme note di organizzare le relazioni e i ruoli di genere.

Bisogna considerare che la funzione di madre/moglie/accompagnante non di rado porta a viversi la propria condizione come qualcosa di immutabile e difficile da tollerare, per esempio la notizia di dover ripartire può avere conseguenze di portata enorme se arriva nel momento in cui si era riuscite ad assestarsi con il lavoro in un certo paese (Sluzky, 1979). La sensazione di dover ripartire sempre daccapo, o la sensazione di dover lasciare “tutto” una volta che lo si è costruito con fatica, può generare sentimenti di rabbia, frustrazione e impotenza poiché richiede una notevole flessibilità nell’adattarsi alle nuove risorse che si troveranno e una notevolissima capacità di lasciarsi alle spalle ciò che non si potrà recuperare.

Quella dell’espatriata sembra essere prima di tutto una scelta di vita che ha nelle sue premesse la perdita delle possibilità “note” di autorealizzazione, quelle che forse si erano immaginate prima di decidere di mettersi in viaggio. Tuttavia, il fare la valigia implica un po’ dimenticarsi del noto per abbracciare l’ignoto. Molte donne riferiscono un’emozione ambivalente: fa paura però è entusiasmante, lo si teme e lo si desidera. Esplorando l’ambivalenza, molto spesso si approda a soluzioni estremamente creative che, in un certo senso, mettono d’accordo tutte le istanze in gioco, costruendo la possibilità di una convivenza tra le emozioni contrastanti e i diversi “paesi” che s’incontrano dentro e fuori da sé.

È forse così che nascono quelle professioni estremamente flessibili ed adattabili a contesti diversissimi o professioni a portata di mouse, nelle quali l’unico bagaglio indispensabile diventa la propria competenza organizzativa e creativa. In questi stessi modi di re-inventarsi sembra che l’estraneità dei luoghi e delle emozioni possa essere vissuta come una risorsa da capire, non solo come un ostacolo da superare o eliminare. Probabilmente nell’ipotesi che l’esplorazione di nuove realtà possa condurre a delle libertà inaspettate e con esse a tutte le nuove opportunità di essere se stesse.

Francesca Isabella Bove
Barcellona, Spagna
Marzo 2011

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Achotegui, J. (2000).” Los duelos de la migración”. Jano. Psiquiatría

Edelstein, C. (2002). “Aspetti psicologici della migrazione al femminile – Albatros in volo”, in Psicologia e Psicologi. Cultura e nuove professionalità. Vol.2, n.2, settembre, pp. 227-243.

Espin, Oliva M. (1999), Women crossing boundaries: a psychology of immigration and transformations of sexuality. Routledge, New York

Losi, N. (2000), Vite altrove – Migrazione e disagio psichico. Milano, Feltrinelli.

Sluzki, C. (1979), “Migration and family conflict” in Family Process, vol.18, n.4, pp. 379-390

 

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