Home > Africa > Congo > L’evacuazione di Claudiaexpat dal Congo

Nel 1997 Claudiaexpat ha dovuto scappare da Brazzaville, la sua città ospitante. In questo articolo ci racconta la sua evacuazione.

 

Era giugno del 1997. Da due anni e mezzo vivevo a Brazzaville con la mia famiglia,. Brazzaville è la capitale del Congo, sorge sul fiume che dà il nome al suo paese e che la separa da Kinshasa, capitale dell’attuale Repubblica Popolare del Congo, nel ’97 ancora Zaire, e ancora sotto la brutale dittatura di Mobutu. A quell’epoca in realtà solo relativamente brutale: il dittatore era infatti divorato da un cancro che tutti i suoi soldi non erano riusciti a sconfiggere, e i ribelli, guidati dal generale Kabila, marciavano con decisione verso Kinshasa, per prendere il potere. Noi, dall’altra parte del fiume, stavamo sintonizzati sulle frequenze delle radio portatili della Croce Rossa, che per prima faceva il conto dei morti. Non ci aspettavamo certo che dopo pochi mesi sarebbe toccato a noi, lì a Brazzaville.

E invece un mattino di giugno scoppiò il finimondo. Le elezioni presidenziali si avvicinavano, Lissouba, il presidente di quel momento, si sarebbe ricandidato contro il suo rivale Sassou-Nguesso, già presidente in passato, e rientrato in Congo (viveva in Francia) per cominciare la sua campagna elettorale, che si svolgeva all’insegna di disordini e tensioni.

Era un giovedì mattina, e la scuola francese, che il mio bambino di allora cinque anni frequentava, era chiusa per il suo giorno di pausa settimanale. Io ero malata, già da due giorni avevo febbre alta e mal di gola. Anche ll mio bimbo piccolo, otto mesi all’epoca, non era in splendida forma, nervoso e febbricitante. Fu per questo che mio marito decise di non andare in ufficio per accompagnarmi in città a ritirare i risultati della goccia spessa (esame della malaria). Dunque per una serie di circostanze casuali al momento dello scoppio dei disordini eravamo tutti insieme.

Abitavamo in un quartiere periferico e il centro città distava circa venti minuti di macchina. Scendemmo tutti, e appena arrivati in città ci rendemmo conto che qualcosa non andava. La tensione era palpabile. Gruppi di gente facevano capannello per le strade, qualcuno parlava di scontri a Makelekelé, un quartiere di Brazzaville. Ritirato il risultato della goccia spessa (positivo per il mio piccolo), ci recammo dal medico, ma ci fu ben presto chiaro che le cose si stavano scaldando e che sarebbe stato meglio rientrare nel nostro quartiere.

Durante il tragitto c’erano già militari e civili armati per le strade. Non immaginavo che stavo percorrendo quelle strade così famigliari per l’ultima volta.

Non ero digiuna di momenti di tensione politica. Avevo lavorato in Sudan e Angola, entrambi in piena guerra, avevo vissuto tentativi di colpi di stato e una serie di altri momenti delicati dal punto di vista della sicurezza. Questa volta però avevo con me i miei due bambini, e per completare l’opera mia madre, per riprendersi dalla recente morte di mia sorella, era venuta in vacanza da noi.

brazzavilleI giorni che seguirono furono pieni di confusione e di gelida incertezza. Le notizie che arrivavano dal centro città, dove peraltro viveva la maggior parte dei nostri amici, non erano confortanti: morti, distruzione, stupri di gruppo, saccheggi…. Era una situazione realmente drammatica: ci trovavamo in un quartiere privilegiato perchè non toccato direttamente dagli scontri, e ciò che giungeva a noi era solo un’eco. Non potevamo però muoverci: l’area “sicura” finiva a pochi chilometri di distanza, e ci bloccava, peraltro, l’accesso all’aereoporto. Inoltre non si sapeva quando i confini degli scontri si sarebbero scomposti.

La preoccupazione per il destino dei nostri amici ci rodeva, ma l’aspetto più duro era il dover mantenere la calma per i bambini, ai quali tentavamo di offrire dei momenti di normalità in mezzo al subbuglio generale: la tata e il cuoco che arrivavano dalla città con terrificanti descrizioni, telefonate ad amici bloccati sul pavimento da giorni, tensione e preoccupazione per il futuro. Andare a dormire era il momento più difficile. Sapevamo che in città gruppi di militari e di civili armati entravano nelle case, saccheggiavano e stupravano le donne. Anche se nel nostro quartiere le cose restavano calme, la preoccupazione ci rendeva impossibile dormire.

Al quarto giorno divenne chiaro che le cose non sarebbero migliorate. Molti dei nostri conoscenti erano già partiti, scortati dall’esercito francese fino all’aereoporto, altri erano sul piede di partenza. Cominciammo a considerare varie possibilità, e a valutare diversi piani di evacuazione. Spettacolare fu il contatto con la nostra ambasciata: chiamai una mattina per sapere se avevano previsto un piano d’aiuto per i nostri connazionali, e mi sentii rispondere testuali parole: “signora, che piano e piano? Forse lei non ha capito che la situazione è ingestibile. Che ognuno si arrangi come può, e adesso la saluto perchè mi stanno sparando alla finestra”.

Decidemmo di affidarci alla Croce Rossa, che però in quel momento era occupata a cercare di raggiungere i colleghi bloccati nel mezzo degli scontri. Un nostro amico della Croce Rossa Congolese si offrì di scortarci a uno dei tanti punti di attracco delle piroghe sul fiume Congo, e di organizzarci un passaggio in piroga fino a Kinshasa.

Furono momenti terribili. Quando decidemmo finalmente di andare, quando anche l’ultima speranza, l’ultima disperata illusione che le cose si sistemassero e potessimo restare cadde nel vuoto, ci trovammo brutalmente di fronte a una realtà che in quel momento, stremati e preoccupati dalla situazione oggettiva, non avevamo le forze di gestire: dovevamo lasciare la nostra casa, Stephanie, la tata, e Raoul, il cuoco, con i quali avevamo condiviso mesi di momenti importanti (la mia gravidanza, la nascita del secondogenito, la morte di mia sorella), i nostri amici, dai quali non avevamo neanche potuto congedarci. Dovevamo spiegare ai bambini quello che stava succedendo, aiutarli a dire addio, in quel modo improvviso, al loro universo. Lasciavamo alle spalle un paese devastato, nella totale incertezza di quanto sarebbe accaduto alla gente che non aveva, come noi, la fortuna di potersene andare.

La mattina della nostra partenza fu un momento tragico. Raoul era appena arrivato e quando vide le valigie e i bambini vestiti per partire mi guardò desolato e disse “proprio oggi che ho trovato il pesce fresco al mercato…”. Quest’uomo ultrasettantenne aveva cucinato per i generali della Francia Libera in Congo, era un cuoco professionale e d’altissimo livello, eppure aveva accettato di lavorare per una famiglia semplice e poco “prestigiosa” come la nostra, e durante tutta la gravidanza e il periodo di allattamento mi aveva preparato manicaretti deliziosi con una devozione e un trasporto indescrivibili.

Stephanie, sua nipote, quando aveva cominciato a lavorare da noi era talmente povera che nella sua baracca dormiva per terra. Era il suo primo lavoro in assoluto e non sapeva che per lavare il water bisogna sollevare l’asse perchè lei un wc non l’aveva mai visto. Questa ragazza dal cuore grande come il fiume del suo paese si era presa cura della nostra casa e dei nostri figli come se fossero suoi. Aveva seguito alla lettera le mie istruzioni durante le prime pappe del bambino, e usciva da questi pasti come da un campo di battaglia, con pappa fino ai capelli, perchè io volevo che il bambino potesse giocare e godere liberamente del momento del pasto insieme a noi. Si era adattata con allegria e saggezza a quelle che sicuramente dovevano sembrarle bizzarrerie occidentali.

E quella mattina stavamo lì, nel giardino che ci aveva visti in tanti momenti felici, storditi, come se nessuno di noi realmente capisse cosa stava succedendo. Ce ne andammo piangendo e sapendo che non li avremmo più visti.

brazzaville2Il molo era giusto sotto a una discoteca all’aperto dove avevamo ballato tante volte. Quando ci arrivammo con le nostre valigie, regnava il caos. Grazie al nostro contatto della Croce Rossa riuscimmo a passare davanti, ma fu impossibile trovare una piroga a motore. Ne affittammo dunque due a remi, sulla prima ci stivammo io e la famiglia, sulla seconda ci seguiva l’amico con qualche bagaglio (tra cui un bauletto con le foto e i giochi dei bambini).

Durante la traversata provai di tutto. A nord sparavano, a sud c’erano le rapide nelle quali se entri con la piroga non esci più. Mia madre pregava, il bebé tentava di afferrare le ninfee che galleggiavano sul fiume, io guardavo il mio grande cercando di leggergli qualcosa sul volto.

Quando fummo oltre la metà del fiume cominciammo a rilassarci, eravamo fuori pericolo. Pian piano mettevamo a fuoco i volti dei colleghi della Croce Rossa Zairese, che ci aspettavano, uno di questi appena ci vide tirò fuori un’enorme bandiera della Croce Rossa e la spalancò sorridendo. Fu un momento molto bello, in tutta la sua disperazione. Ma non riuscivo a smettere di pensare che noi ci stavamo mettendo in salvo, e i nostri amici congolesi no.

Arrivati a Kinshasa ci sistemammo in un hotel, disponendoci ad aspettare i due giorni che ci separavano dal rientro in Italia. Ricordo quei giorni come sfuocati, come un brutto sogno, nel quale alcune cose risaltano, perfettamente a fuoco: il dinosauro di plastica che il mio bambino ha comprato nel negozio di souvenirs dell’hotel, il primo caffé che ho bevuto appena arrivata a Kinshasa, servito da un greco che ci raccontava che lui era stato saccheggiato tre volte, e che mi è parso il caffé più buono che abbia mai assaggiato, il pediatra dagli occhi tristi che ha visitato il mio piccolo, che aveva ancora uno strascico dell’attacco di malaria. E Brazzaville dall’altro lato del fiume, dove sparavano, sparavano…

Mi ci sono voluti almeno due anni per elaborare quanto è successo, e ancora oggi quando ci penso, quando ne parlo e ne scrivo, vengo assalita dall’angoscia legata a quei tristissimi momenti. Di Raoul e Stephanie abbiamo avuto notizie qualche mese dopo la guerra, quando un nostro collega, ancora a Brazzaville, li ha chiamati per dar loro alcune delle nostre cose che era riuscito a mettere in salvo. Tra queste c’era il passeggino del mio bimbo piccolo, che Stephanie, incinta al sesto mese, ha portato via con sé.

Naturalmente non sono molti i paesi nei quali i rischi di disturbi politici a questi livelli sono reali, ma a seconda del settore in cui lavorate o in cui lavora il vostro compagno/marito, potrebbe capitarvi di ritrovarvi coinvolte in una situazione come quella che ho appena descritto, e di cui ci parlano altre amiche espatriate in articoli analoghi.

Purtroppo intrecciare la propria vita a quella di un altro paese vuol dire anche essere pronti a queste evenienze. Dal punto di vista pratico, a seconda dei paesi nei quali vi recherete, riceverete istruzioni per questo tipo di casi. Dal punto di vista sentimentale, invece, la cosa si complica: quello che si prova quando si passa dal rischio immaginato al rischio oggettivato è qualcosa di molto intimo e di difficile elaborazione. Penso sia importante condividerlo con altre persone, soprattutto se queste sono passate attraverso la stessa angoscia, le stesse paure e gli stessi dolorosi momenti di un addio in queste condizioni.

Claudia Landini (Claudiaexpat)
Lima, Perù
Novembre 2006
Foto principale: Creative Commons

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