Home > Asia > Israele/Palestina Occupata > Lettera dalla Palestina alle mie amiche di Expatclic

Fedeexpat vive tra l’Italia e la Palestina. In questo momento si trova a Ramallah, con suo figlio e suo marito, e da là ci manda questa lettera, una testimonianza unica. Federica collabora anche con Mis(s)conosciute, alle quali invia cronache puntuali (che vi consigliamo caldamente) di quello che accade in quella terra tormentata. Grazie, Federica.

 

Mie care amiche viaggianti,

lunedì scorso sono arrivata a Ramallah in una Palestina se possibile ancora più sbriciolata e, letteralmente, carbonizzata.

Dal momento che ho messo piede ad Amman sono stata travolta dall’assetto di estrema allerta militare che contraddistingue questa parte del mondo, ma perdonatemi, devo subito correggermi perché sono ancora fresca del breve soggiorno cagliaritano dove ha fatto da sfondo alle preziose ore passate con carissime amiche la fin troppo palpabile presenza delle infrastrutture militari sempre più vivaci e poco preoccupate di mimetizzarsi. Stessa cosa sta accadendo nella “mia” Toscana; mia, sono i territori a plasmare noi creature umane più che il contrario, ma il vezzo individualista si è così profondamente radicato che altera e distorce la vista. Insomma anche in Europa l’apparato militare a “difesa della sicurezza” è imponente, solo un filino più raffinato e sofisticato; più defilato.

Avete mai pensato a come tanto più cresce il livello di “sicurezza” tanto più aumenta l’insicurezza della persona e delle persone?

Qui, a Ramallah, in Palestina questa sensazione di insicurezza causata dall’apparato di sicurezza israeliano è vertiginosamente terrorizzante.

A pizzichi e bocconi ritorno alle osservazioni che ho annotato lungo il tragitto dall’aeroporto di Amman a casa. Due giorni con una necessaria e quanto mai benefica sosta in uno dei tanti alberghi che si trovano lungo il mar Morto, dove mi sono dedicata ad una rigenerante contemplazione immersiva nella luce opalescente e cangiante che definisce questa zona.

Palestina

 

Fra poche sarò alla frontiera israelo-giordana, chiamata “il ponte” (non si merita neanche la maiuscola) dove mi troverò circondata da gente ostile e in una delle zone più militarizzate del mondo.

Mi sorprendo di me stessa come ancora oggi uno dei momenti che avverto con più violenza sia la gestione del bagaglio che ci viene bruscamente sottratto per essere sottoposto a controlli e perquisizioni lontano dai nostri occhi.  Se però utilizziamo il servizio VIP (si, VIP, e si commenta da sé) all’esoso costo di quattrocentocinquanta dollari per tre persone, io pago di più rispetto a mio marito e nostro figlio entrambi palestinesi (la loro cittadinanza italiana qui è ignorata e solo se ci sono diplomatic* competenti intervengono per far valere i diritti minimi dei/delle cittadin* italo-palestinesi, altrimenti si fa quello che Israele ordina; in quasi vent’anni di frequentazione del paese solo una diplomatica ha utilizzato gli strumenti a disposizione per tutelare i/le cittadine italo/palestinesi) i nostri bagagli vengono fatti passare dalle macchine spione e abbandonati con modi più aggraziati per farceli recuperare dopo i controlli dei nostri corpi. Intendiamoci, sono due modalità di oppressione e controllo equivalenti e il sollievo è solo apparente.

Se non ci si può permettere il costo da VIP, i bagagli dopo l’ispezione vengono abbandonati accatastati come sacchi di spazzatura; una volta ho provato a fare una foto; non mi sono più azzardata.

Il peggio è che senza VIP anche io vengo separata dai miei e allora gestire la paura viscerale che mi prende allo stomaco diventa davvero faticoso perché quel buco nero che è la frontiera per mio marito e soprattutto nostro figlio adolescente che lo rende un sorvegliato speciale, è uno spazio pericolosissimo.

A volte mi pare che mio figlio non se ne renda pienamente conto, ma perché dovrebbe? Un ragazzo che ha finito un bell’anno scolastico, innamorato e determinato a godersi il tempo estivo oziando fra karate, disegno e giochi da tavola!

palestinaA me e al suo babbo il penoso compito di equipaggiarlo senza soffocarlo di ansia.

Ma dicevo del tragitto e delle cose che hanno colpito il mio sguardo. Tante; piccoli dettagli di grande importanza, ma su uno mi fermo oggi e degli altri vi scriverò in seguito.

La terra carbonizzata dagli incendi appiccati dai coloni ogni volta che non riescono ad occupare nell’immediato la terra.

È una pratica conosciuta e usata da decenni in Palaestina, e che in questi mesi si è intensificata per quantità ed estensione; dio che pena vedere queste creature arse vive e l’odore mortifero che appesta l’aria. Io mi sono ammutita davanti a tanto odio annientante e penso con imbarazzo a chi commette questi assassinî e mi perdo chiedendomi perché ciclicamente ci ritroviamo davanti a questi delirî collettivi. Ho sempre pensato che i/le colon* sono un problema enorme per lo stato israeliano e lo penso ancora di più ora; sono ingovernabili e la loro è una furia autodistruttiva.

Intanto mi son di nuovo trovata davanti al razionamento dell’acqua che da programma dovrebbe arrivarmi a casa il giovedì sera per circa quarant’otto ore, ma la pianificazione è indicativa e infatti già stamani acqua non ne arrivava più per cui parsimonia.

palestinaMia cognata che è arrivata un paio di giorni prima di me da Dallas è a Jenin dalla sua mamma e dopo vari tentativi per trovare il modo di vederci abbiamo rinunciato perché la strada da Ramallah a Jenin non è sicura per cui niente. Jenin, Jenin! Cavoli, la città è divelta, le infrastrutture distrutte e anche il monumento a Yasser Arafat, ovviamente. Le incursioni dei soldati quasi quotidiane. E appena i soldati escono, il Governatorato organizza il lavoro di rimozione delle macerie dalle strade centrali; ecco la cifra di questo popolo, le strade sono battute perché asfaltarle ora neanche a parlarne e poi non ci sono le risorse primarie per fare questo lavoro, però la viabilità è salva e la dignità mantenuta ricostruendo, pulendo, piantando là dove si è tentato di distruggere e cancellare.

Mi ci è voluta tutta la settimana per raccogliere le forze e chiedere a mio marito che ne è dei nostri ulivi e dei dieci carrubi che mio suocero ha piantato poco prima di morire dicendomi che lui non li avrebbe visti grandi e fruttuosi perché son piante che si prendono del tempo prima di maturare a dovere, ma noi sì, noi ne avremmo goduto. Non lo sa; mio marito non sa come stanno gli alberi perché la maggior parte sono irraggiungibili a causa dei coloni che stanno lì appostati pronti a sbranarsi tutto, come lo scorso anno quando ci hanno preso le olive dopo che il governo israeliano ci aveva vietato di fare la consueta raccolta annuale. Speriamo che non li abbiano bruciati.

Con affetto, Federica

 

Federica Marri (Fedeexpat)
Ramallah, Palestina Occupata
Luglio 2024
Tutte le foto @FedericaMarri

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