Come ogni anno, Fedeexpat trascorre qualche mese nella sua casa di Ramallah, con suo marito e suo figlio. Questa è la sua lettera-diario per le amiche di Expatclic. Grazie di cuore, Federica.
Ben ritrovate, come state? Come va?
Vi scrivo da Ramallah seduta al tavolo dai mille usi davanti ad una finestra con vista su una vallata profonda alla fine della quale c’è la costa, Tel Aviv che fino a qualche decina di anni fa si chiamava Tel El Rabia’, la collina della primavera.
La Striscia di Gaza è a poche ore da qui.
Ramallah è immersa in una calma tesa e nervosa, l’aria è ferma anche quando tira vento e qui tira sempre vento perché tutto intorno a noi fino alla Striscia la mia gente palestinese viene braccata, portata via di forza dalle case, linciata per le strade, disintegrata, ridicolizzata e delegittimata dalla mia gente europea e italiana.
I e le palestinesi non devono più esistere perché incarnano la Palestina.
Non c’è la quadra e da giorni ho deciso che siccome non ci sarà giustizia, niente che nessun tribunale, persona, giurista, premio Nobel possa restituire, niente, non sprecherò le mie energie chiedendo una ricompensa impossibile da ottenere. Niente potrà mai risarcire da questo odio genocidiario.
Da anni ormai quando rientro dalla Palestina ho più capelli bianchi, sono bianchi, bianchi e la trasformazione è così repentina ed evidente che è mio figlio ad accorgersene e a dirlo a voce alta, negli ultimi tre anni questo fenomeno è stato particolarmente evidente.
Sono arrivata circa tre settimane fa e fino all’ultimo era incerto che potessi venire.
Il viaggio è stato ritmato dall’apprensione, si percepisce chiaramente che ogni minimo gesto può essere il pretesto di reazioni militari violentissime e il passaggio della frontiera via terra fra Giordania e Israele è un luogo ad alta concentrazione di armi di ogni tipo dove il diritto è sospeso, dove vigono altre regole basate su misteriosi criteri di origine militare mascherati dalle parole sicurezza nazionale che tutto sigillano e inghiottono.
Abbiamo pagato, tanto, per non farci separare, troppo pericoloso, non né abbiamo neanche parlato, questa volta.
Passata la frontiera la via verso casa dove la terra porta ancora le tracce dei roghi appiccati lo scorso anno agli ulivi dagli e dalle israelian+ che vivono nelle colonie, il braccio armato informale dello stato accanto a quello formale dell’esercito, trovo le comunità beduine svuotate. Non né è rimasta una, lungo la via chiamata snake road. Una curva dopo l’altra compaiono i loro capanni con i recinti per gli animali, vuoti e ovunque stelle di Davide che ostentano la vittoria, la presa del territorio e soprattutto la deportazione di migliaia di persone. Al momento sono riuscita a sapere che sono stati temporaneamente sparpagliati nei campi rifugiati, ovviamente perché i campi rifugiati sono le piccole Gaza e al momento direi che sono l’anticamera dell’espulsione dalla Palestina storica o della morte.
Mentre vi scrivo rifletto che da qui che è partito l’attacco israeliano contro i/le palestinesi.
Prima prova l’assassinio di Shiren Abu Akle il cui volto è ovunque in Palestina, la voce della Palestina ammazzata dal silenzio dei suoi colleghi e delle sue colleghe occidentali. Se nessun+ protestava per lei, si poteva fare di più e lo stanno facendo nella striscia di Gaza senza che i/le giornalist+ occidentali manifestino segni di solidarietà, anzi, le loro parole vengono messe in discussione perché non possono essere verificate dai/dalle vere giornalist+, quelli occidentali, neutr+, equidistanti, obiettiv+, razionali.
Lungo la via di casa mi ha sommersa il silenzio, un buon silenzio, attento, vigile e in ascolto.
Ad aspettarmi, lo sapevo perché mio marito alla fine ha dovuto dirmi anche questo, il sequestro di una parte delle nostre terre da parte dell’esercito per scopi militari. Secondo le loro regole è un sequestro temporaneo, secondo la prassi in vigore non è mai accaduto che restituissero la terra, saremmo i primi. E poi il filo spinato che a questo punto da tre anni ci impedisce di accedere ad un gran numero di ulivi inclusi i carrubi che sono bruciati.
Sempre secondo le loro regole, le terre abbandonate per tre anni consecutivi diventano demanio statale. Solo i residenti in quella zona potrebbero, sempre secondo le loro regole, accederci e l’agricoltore che se ne prendeva cura è residente, il problema è che quando si avvicina gli sparano. Lo scorso anno mentre di giorni soldati e israelian+ delle colonie ci rubavano le olive, la notte l’agricoltore si intrufolava e coglieva le olive al buio, mettendo in pericola la sua vita e quella dei suoi famigliari. Lo abbiamo implorato di non farlo invano. E ogni giorno torna alla carica provando a chiedere di poter accedere perché l’importante è fare qualcosa, togliere i sassi, tagliare le gramigne, basta starci anche poco. Non vi dico che pena! Pare sua quella terra, e di fatto è personale per chiunque di noi, è un rapporto ribaltato, siamo noi che apparteniamo alla terra.
Silenzio.
Ascolto dalla rassegna stampa alla radio che Grossman con gran disorientamento deve ammettere che si tratta di genocidio e che non si capacita di come Israele sia potuto arrivare a questo. Ma chi è Grossman? Un sionista, riservista scrittore che da sempre sostiene la colonizzazione della Palestina, pretende di far l’ingenuo? E da quando gli aguzzini possono legittimare le loro vittime?
Qui in Palestina di questo Grossman non c’è traccia, prodotto culturale della propaganda sionista osannato da una compagine di uomini e donne di cultura conformist+, ignav+ e obbedienti.
E intanto le persone intorno a me vengono polverizzate e perché non ne rimanga traccia alcuna vengono profanati anche i cimiteri; non mi sorprende da parte di un popolo che ha osato profanare anche la Shoa per ricattare e minacciare accuse infami e paralizzanti. Mi piacerebbe affermare che il giochino si è rotto, ma so che non è vero. So che questo finirà nel calderone dei genocidi commessi per mano degli/delle europee nel corso dei secoli.
Io ho dovuto sincronizzare il mio ritmo a quello dei giorni in cui arriva l’acqua, alla corrente elettrica che va e viene, alle incursioni militari in base a cui posso andare o non andare da qualche parte e quale strada prendere.
Vite in ostaggio le nostre, certo, ma vittime mai, è una questione di dignità.
E quella cosa che chiamano resistenza ho imparato si pratica nel quotidiano attraverso i gesti elementari come prepararsi la colazione che ci piace e farla come ci piace. Preparare il caffè con gusto nel silenzio di casa e della città che si sta risvegliando e gustarsi il momento. Leggere le notizie. Vestirsi con cura e attenzione…. Resistere è non lasciar spazio allo scoraggiamento e a chi ti vuole morta dentro.
Ve lo scrivo perché ricevo tanti messaggi di persone scoraggiate dal senso di impotenza; non siamo impotenti, vogliono farcelo credere.
Buona resistenza a tutte e soprattutto tante, ma davvero tante buone letture.





