
Continuano le lettere-diario di Federica dalla Palestina. In questa ci racconta com’è un ordinario giorno di resistenza laggiù.
Un ordinario giorno di resistenza comincia con un matrimonio serale.
Io mi sono sposata in Palestina e se mio figlio si sposerà sarà in Palestina dove gli sposi sono accolti da almeno dieci minuti (li ho registrati) di cori di uomini e donne che si chiamano fra loro, hadda e zagharir al ritmo del table (le percussioni) e di una musica che va dritta alla parte più ancestrale dell’umano.
È una gioia collettiva indescrivibile e contagiosa che coinvolge un gruppo largo ed esteso di persone.
Ordinaria resistenza, niente di che.
Celebrazioni e riti che sono un’affermazione del (R)esistere palestinese, strumenti, come l’istruzione.
Fra di noi, stasera, ci sono persone che nelle ultime settimane hanno visto i soldati israeliani irrompere in casa di notte per derubarli di soldi e oro e distruggere il mobilio della casa per sadismo e cattiveria. Viviamo, resistiamo appunto, nel terrore di questi assalti.
Gli uomini erano tutti elegantemente vestiti ed esteticamente curati, barba, capelli, profumo, scarpe lucide, papillon e cravatte. Non ci arrendiamo alle macerie delle strade divelte dall’esercito israeliano che distrugge le fragili infrastrutture per lasciarci senza acqua e corrente, senza riuscire ad impedire che appena se ne vanno ci si mette al lavoro per rimuovere la loro distruzione; lo facciamo da oltre cento anni. Hanno scelto la terra palestinese perché era dissodata, lavorata, collegata da strade e ferrovie; la hanno depredata, devastata, annientata e sottosviluppata; cinic+ ingrat+.
Noi donne sfidiamo davvero le bombe abbigliandoci. Indossiamo abiti ricercati ed eleganti che rifiniamo e valorizziamo con monili legati ad affetti, collane che passano da una generazione all’altra, ma anche accessori; mia cognata ostenta con affetto un coprispalla della sua mamma.
Amici e parenti che sono venuti da altre città rischiano di non rientrare a casa o di rimanere in ostaggio per ore di un blocco stradale improvvisato (fly check point), vanno via presto sperando di non avere problemi. Domani mattina ci chiameremo per sapere se siamo tutt+ a casa e viv+.
Molti fra di noi non hanno lo stipendio da mesi. I dipendenti pubblici, insegnanti, pubblici ministeri, giudic+, medici, infermier+, Israele riscuote le nostre tasse che in base agli accordi dovrebbe trasferire all’ANP, ma non lo fa perché usa questo meccanismo come arma di ricatto, di nuovo il sadismo e la cattiveria, vorrebbero umiliarci.
Ma stasera si festeggia e si gioisce, domani si pensa a far fronte alle spese e ai problemi.
Oggi fra una lavatrice e l’altra, perché è giovedì e l’acqua nella mia zona sta arrivando, coordinata con figlio e marito, ho fatto la spesa, poi ho sentito delle amiche e ogni tanto mi distraevo a pensare al vestito da indossare e al venticello freddino che spazza Ramallah anche in pieno agosto.
Mi sono sorpresa a pensare ai cappelli che acquisto da Ilaria, artigiana della mia città natale, con cui parliamo di libri di storia del costume, degli accessori e della gioia che scaturisce dal giocare con la propria soggettività attraverso l’abbigliarsi, gesto che ha del sovversivo quando lo si reinterpreta ogni giorno creativamente senza identificarsi in qualcosa che irrigidisce l’identità.
Stasera uno dei miei cappelli sarebbe stato l’oggetto mediatico per entrare in relazione. Succede sempre con un paio di scarpe che attirano l’attenzione, o una fusciacca indossata in maniera inusuale rispetto al contesto, questi oggetti avvicinano, attraggono e lo fanno su un piano in cui ci si riconosce tutte ludiche, vezzose indipendentemente dallo status sociale, gli accessori che indossiamo dicono che ognuna di noi e ognuno di noi dedica del tempo alla cura estetica del proprio corpo, della propria persona, dicono che ci si pensa esseri sociali in relazione; altrimenti non dedicheremmo energie e desideri a questa pratica profondamente animale e anche vegetale, che cosa sono i fiori in fin dei conti! Dedicare energie alla scelta dell’abito è un gesto di profondo rispetto, è gesto di dignità trasversale alle condizioni socio economiche.
E qui, beh, qui in Palestina abbigliarsi e addirittura indossare le scarpe con i tacchi è davvero un atto di Resistenza. Io stasera mentre mi preparavo mi imponevo e sovvertivo la narrazione che mi vuole sottomessa ad un violento marito arabo, arretrata, tribale nel senso di primitiva, biologicamente sempliciotta perché palestinese.
Avete mai riflettuto che quando ci accusano di essere pro Palestina fanno la doppia operazione coloniale di dare un’accezione negativa alla parola Palestina e di deviare l’attenzione dal discorso vero, quello della richiesta di giustizia e di rispetto del diritto internazionale? Bisogna rispondere con risolutezza imponendo un registro linguistico che smaschera la violenza verbale razzista e coloniale.
Non ho portato neppure uno dei miei cappelli perché alla frontiera potrebbero sequestrare le mie cose, è accaduto numerose volte.
Abbiamo celebrato anche ballando con il volume della musica più bassa e di nuovo, come fai a contenere il desiderio che muove i ventenni? E questo desiderio è vitale dice che tutta questa violenza che ci vuole cancellare dalla terra come popolo non può contenerci, non può controllarci, che sì, forse moriremo uccisi, ma con dignità fino all’ultimo, c’è chi lo fa combattendo, c’è chi lo fa ballando, c’è chi lo fa aprendo ogni mattina il proprio forno, il proprio caffè, andando a scuola e all’università, lavorando anche se lo stipendio non arriva e vestendosi ogni giorno con cura e ricercatezza in base alle proprie risorse economiche.
Quando sono arrivata a casa mio figlio ha steso l’ultima lavatrice della giornata, mio marito ha ricordato a voce alta a se stesso che domani mattina deve controllare se arriva l’acqua perché in città questo fine settimana è distribuita a macchia di leopardo, poi andremo a salutare mia cognata, siamo entrambe in partenza e ci rivedremo fra un po’, oggi per il pranzo di domani abbiamo fatto la pizza; l’impasto lievita e io vado a sbirciare e ad annusare gli aromi che sprigiona, ci parlo come parlo con le piante e con la gatta che si perde pure a rispondermi.
Domani pomeriggio mi vedrò con le amiche, sodali di letture per scegliere la finalista de La Fata Verde di quest’anno e la giornata scivolerà verso la sera in una quieta allerta. I militari entrano sempre più spesso anche a Ramallah e anche di giorno. Martedì è stata una giornata particolarmente violenta, sono state ore di terrore intenso perché i cecchini erano intorno alle scuole del centro e, certo, stai lontana dalle finestre e fai quello che ti dicono gli insegnanti e, e, e…
Una mia amica è rimasta seduta ore sul ciglio del letto ad aspettare mentre dalle dirette vedeva quello che stava succedendo e come lei centinaia di famiglie con i figli e le figlie in ostaggio e circondati da sadici violenti con l’uniforme dell’esercito dello stato israeliano, a proposito dell’importanza dell’abbigliamento, di ostaggi e di terrorismo.
Torno con il pensiero alla festa, alle voci, al ritmo del table e alla Fata Verde.
Federica
Ramallah, Palestina
Settembre 2025
Foto di testata @ClaudiaLandini
Le altre @FedericaMarri
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