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Claudiaexpat ci racconta la sua esperienza di volontariato con un gruppo di diversamente abili a Gerusalemme.

Da diversi mesi trascorro tutti i mercoledì mattina in un ospizio per orfani e disabili di Gerusalemme. E’ un enorme spazio dalle pareti di pietra e dai corridoi ampi e silenziosi, all’interno del quale suore di svariate nazionalità e volontari (religiosi e laici) tentano di dare una struttura d’assistenza ad ampio raggio a bambini di famiglie disagiate e a persone disabili abbandonate.

Ho cominciato a farlo sostanzialmente perché avevo bisogno di qualcosa che mi ancorasse alla realtà. Noi espatriate accompagnanti spesso non abbiamo modo di entrare direttamente in contatto con le sfaccettature più concrete del luogo in cui viviamo, e ho sempre considerato il volontariato come un ottimo mezzo per aggirare questo handicap.

Sono anche stata molto colpita dal libro di Jean Calder, e dalla forza e dal calore che sprigiona dalla sua descrizione del rapporto con bambini e adulti diversamente abili.  Per finire, ho un animo che si nutre di rapporti umani: amare e aiutare persone che hanno in qualche modo bisogno di me è uno dei tanti canali attraverso i quali mi sento pienamente realizzata. Non sapevo però fino a che punto la relazione con queste persone mi avrebbe coinvolta.

Disegnando con Semira

Il gruppo di disabili che assisto i mercoledì mattina è formato perlopiù da persone che hanno alle spalle storie agghiaccianti di violenza, discriminazione e abbandono, tutte con vari gradi di disabilità. Sono all’ìincirca quaranta tra donne e uomini, tra i trenta e i sessant’anni, afflitti da disabilità di ogni tipo, fisiche e mentali, e di diverso grado.

Quando sono entrata per la prima volta nel grande stanzone che li raccoglie al mattino per la colazione, ho pensato che non avrei retto. La concentrazione di miseria umana era talmente alta da scuotere tutta la mia serenità e fermezza. Ma sono una persona pratica e abituata ad adattarsi a tutto. Ho capito subito che la mia presenza non solo apportava qualcosa a loro – il piccolo aiuto pratico che potevo fornire più il fatto di poterli accompagnare a passeggiare – ma anche a me: la possibilità, cioè, di penetrare una realtà di cui conosco da sempre l’esistenza, ma con la quale finora non ho mai interagito in maniera costante.

Con Isabelle, l’amica che mi ha fatto conoscere il posto

Così ho cominciato la mia routine settimanale e man mano che passavano i giorni e conoscevo meglio queste persone e le loro storie, costruivo con ognuno di loro un rapporto esclusivo, fatto di gradi di comunicazione differenti.

Una delle sfide per me sempre vive in questo tipo di impegno è che il contatto con loro mi costringe ad andare al di là delle forme comunicative convenzionali. Ognuno di loro comunica come può e vuole, ma decisamente in una maniera che obbliga a cercare modi alternativi di mettersi in contatto e capire cosa c’è dietro ai gesti, ai pianti, alle risate e alle azioni che non sono mai scontate. Per una fanatica interculturalista come me, questa è una grande prova, perché non solo mi mette di fronte a codici comunicativi assolutamente inediti, ma mi obbliga anche a scavare dentro di me per trovare delle risorse sconosciute e avere la giusta dose di fantasia per applicarle a seconda dei casi.

La routine del mercoledì prevede che si trascorra un po’ di tempo in una grande stanza tutti insieme, prima di prepararsi per uscire. Quando Maria, l’amorevole e instancabile missionaria italiana che li segue 24 ore su 24 con incredibile abnegazione, ci raggiunge e ci informa sul programma della giornata (a volte alcuni vanno dal dentista, oppure partecipano agli atelier artistici, etc.), organizziamo il “gruppo d’uscita”, ovvero stabiliamo quali e quanti di loro possono andare a passeggiare (questo dipende anche, naturalmente, dal numero di volontari presenti). Devono essere persone in grado di camminare, portare le carrozzine in giro per Gerusalemme è infatti un’impresa molto ardua e superiore alle forze di noi volontarie. E’ una gioia vedere quanto sono felici di uscire.

Li prepariamo (in inverno aiutandoli a mettersi giacche e berretti) e poi li portiamo fuori, tenendoli per mano, due per volontaria. Ognuno di loro ha la sua particolarità che va conosciuta e gestita – Azo ha paura a far le scale (e a Gerusalemme non sono le scale che mancano), Fusi ruba, Najal beve da tutti i recipienti che trova, quindi bicchieri di plastica con fondi di caffè abbandonati sul marciapiede, bottiglie semivuote gettate ovunque, o addirittura il tè che i commercianti della città vecchia appoggiano vicino alla cassa o su uno sgabello), Bajat pulisce tutto, afferrando mozziconi di sigaretta, carta straccia, ma anche piantine che spuntano tra le rocce, e buttandoli dietro di sé, oppure spostandoli col piede. Riconoscere questi loro tratti e rapportarsi ad essi è stato uno dei primi passi per me per creare con queste persone un rapporto umano.

I negozianti della città vecchia che ci vedono passare sono persone meravigliose, che conoscono il gruppo e lo trattano con affabilità e affetto. Il gestore di una drogheria ci dà tutti i giorni una bottiglia di succo e dei biscotti per far merenda. Altri salutano affettuosamente o chiudono un occhio quando uno dei “nostri” afferra qualcosa o blocca il flusso di turisti e pellegrini perché si ferma all’improvviso e si mette a salutare gli sconosciuti.

Con Azo (a sinistra) e Bajat, durante la raccolta delle olive

La nostra passeggiata dura poco più di un’ora ed è un momento privilegiato per tutti – soprattutto per loro che hanno la possibilità di uscire un po’ da quelle soffocanti mura e mischiarsi con la vita di tutti i giorni.

In estate in un paio di occasioni li abbiamo portati in piscina, in un compound di suore appena fuori Gerusalemme, ed è stato meraviglioso. Verso fine settembre abbiamo fatto la raccolta delle olive. Quando abbiamo la possibilità di far far loro qualcosa di diverso, è sempre un po’ come una festa.

Dopo la nostra passeggiata rientriamo e ci disponiamo in una saletta con televisore, aspettando il pranzo. Alcuni sono stanchi, altri litigiosi, ed è importante che qualcuna di noi sia sempre presente, perché le ausiliari (ragazze che lavorano all’interno della struttura) sono impegnate a organizzare il pranzo. Quando tutto è pronto li accompagniamo a mangiare. Alcuni di loro (pochi, per fortuna) hanno bisogno di essere imboccati. Quando il pranzo finisce vanno a fare un pisolino, e noi volontarie li salutiamo fino alla settimana successiva.

Ritrovarli ogni mercoledì è uno degli appuntamenti più belli della mia settimana. Come accade in tutti i gruppi, anche in questo ho stabilito i miei legami privilegiati con alcuni di loro. C’è Semira, alle spalle una storia troppo tragica e che non racconterò per rispetto nei suoi confronti, che ha un bisogno spasmodico di essere seguita da vicino: con lei si ripetono parole, suoni, si canta, si ride, ci si abbraccia, in un’esclusività che a volte diventa un po’ pesante da gestire, perché la sua possessività rende difficile interagire con gli altri del gruppo.

C’è Azo, autistico, non ho mai sentito la sua voce e non so da dove venga e perché si trovi lì. Sono convinta che capisca perfettamente tutto, spesso quando gli parlo mi guarda negli occhi e sorride, e per me è una delle soddisfazioni più grandi.

C’è Rina, che viene sistematicamente esclusa perché morde. Ma come dice giustamente Maria, morde perché viene esclusa. Quando mi vede mi tende le braccia e urla di gioia – con lei riesco a scambiare qualche parola e cerco di convincerla che è meglio baciarsi che mordersi.

Con Sipura (non vedente) e mia mamma, in visita a Gerusalemme

C’è Jenny, afflitta da mongolismo acuto, che piange in continuazione. I primi tempi restavo basita e un po’ a corto di risorse quando vedevo che reagiva ai miei baci con dei singhiozzi incontrollabili. Adesso mi sono abituata, e tra le lacrime ogni tanto riesco a strapparle un sorriso.

C’è Sarawa, convinta che sua madre stia per andare a prenderla in ogni momento della sua giornata, e dunque saluta tutti in continuazione con baci e abbracci.

C’è Naumi, in carrozzella e costantemente sedato, un vecchino dallo sguardo blu e il sorriso dolcissimo, che amo abbracciare e baciare e coccolare perché con lui funziona lo scambio classico: baci in cambio di sdentatissimi e felici sorrisi…

L’ospizio di Saint Vincent de Paul (così si chiama la struttura) accoglie volontari anche internamente, persone di tutte le età che vogliono trascorrere un periodo a dare una mano. In cambio di vitto e alloggio, chiede un aiuto per la gestione quotidiana di questo coinvolgente gruppo. Contattatemi se siete interessate. E se passate da Gerusalemme per turismo, sarò felice di portarvi a conoscere queste persone, che sono ormai diventate parte del mosaico umano che compone il mio bellissimo espatrio in questo paese.

 

Claudia Landini (Claudiaexpat)
Gerusalemme
Febbraio 2011

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