A un paio di settimane dal suo trasferimento, Claudiaexpat ci racconta le impressioni dei suoi primi giorni a Gerusalemme, la sua nuova città d’accoglienza.
Sono arrivata a Gerusalemme due settimane fa. Installarsi in un nuovo paese mi ha sempre suscitato emozioni simili a quando c’è una nascita in famiglia: una sensazione di grande novità, eccitazione, aspettativa, e l’idea che è successo qualcosa di grosso nella mia vita.
Ho lasciato l’Italia con grande allegria, nove mesi di transito per un’incallita espatriata come me sono davvero tanti. lnoltre non ero mai stata da queste parti del mondo, e Gerusalemme è una città che esercita il suo fascino a distanza, per tutto quello che il solo nome evoca.
Da quando sono atterrata è cominciato il processo (temo irreversibile) di innamoramento per questa città e tutti gli stimoli che offre.
Non è un posto semplice, intendiamoci. Vi dirò di più: non sentivo un tale spiazzamento culturale dai tempi del mio primo espatrio in Africa. Mi muovo in un campo dove i miei riferimenti sono limitati al poco che so su questa terra e sul conflitto che la devasta. E non mi aiutano per niente.
Sono appena arrivata: appoggiate le valigie, io e mio marito andiamo a far la spesa. Ci fermiamo a chiedere indicazioni a un ragazzo che aspetta un bus. Parla un inglese stentato, e nella foga di spiegarsi si toglie il cappello. Ringraziamo, salutiamo, ripartiamo. Dico a mio marito: “era un palestinese, vero?“. “Ma no!!“, mi risponde lui. “Era chiaramente israeliano. Finchè ha tenuto sù il cappello ero in dubbio anch’io, ma quando se l’è tolto ho capito subito“. Il cappello???
Attribuisco il mio disorientamento al fatto che sono appena arrivata e sono stanca, ma il giorno dopo, e quelli successivi, non va meglio. Non capisco chi è chi, e non so come rivolgermi alle persone.
C’è un parcheggio privato di fianco alla scuola di mio figlio. Il parcheggiatore, un ragazzo giovane e simpatico, mi parla in arabo. Io sistemo la macchina, gli sorrido e vado a prendere il figlio. Al mio ritorno il ragazzo non c’è, e alla cassa mi accoglie un signore un po’ più anziano. Mi dice “10 sheckels“. Gli chiedo come si dice 10 in arabo. Si infuria. “Arabo, arabo…. io non sono arabo!!!“. Va bene, va bene, sorry!!!
Questo meccanismo di non capire chi ho davanti se non sono aiutata da evidenti simboli un pochino mi sfianca, ma mi gasa anche, perchè mi obbliga a mettere in pratica quello che da sempre predico quando parlo di intercultura: sospendi il tuo giudizio, vai incontro all’altro liberandoti di tutti i preconcetti e le costruzioni mentali. In fondo sono tutte persone, prima di tutto persone.
Di persone ce ne sono davvero tante, in questa bella ed elegante città. I turisti non si contano. Nella città vecchia (che posto assolutamente magico, unico, incantato!!) enormi bus scaricano tutti i giorni frotte di turisti che si accalcano al Santo Sepolcro o sulla spianata del Muro del Pianto.
Eppure passeggiando per le sue stradine antiche mi sembra che lei, Gerusalemme, sia indifferente a tutto questo via vai. Certo, il suk è diventato commerciale, lo dicono tutti, ci sono un sacco di negozietti per turisti e i prezzi sono molto elevati, ma ho visto posti conciati peggio dal turismo.
Mi sembra che questa città mantenga la sua dignità. Forse perchè è abituata ad essere oggetto di invasioni, litigi e contrattazioni.
Sono con un’amica sulla spianata davanti al Muro del Pianto. Mi si avvicina una signora, ebrea (questa la riconosco). Mi porge un piattino con degli spicchi d’arancia e dei pezzi di cioccolato. Cerco di rifiutare, le dico “no thank you“, lei insiste, mi spinge il piatto sotto il naso, io prendo uno spicchio d’arancia, la mia amica anche, e lei ci fa capire che dobbiamo recitare una preghiera. Ci dice le parole e vuole che noi le ripetiamo.
Sono imbarazzata, da anni non prego neanche nella mia lingua. Ma la mia amica mi fa capire che non è proprio il caso di mettersi a discutere. Recitiamo la filastrocca e ce la filiamo. Ma intanto penso che questo pezzo di vita qui sarà una fantastica sfida.
Bernard è un giornalista fotografo spagnolo. Lo incontro nel parco che sovrasta la casa in cui vivo, mentre porto a passeggio Mitch, il mio cane espatriato. Anche lui sta facendo passeggiare il suo cane, e ci mettiamo a parlare. “La cosa pesante qui“, mi dice, “è che appena ti conoscono hanno subito bisogno di capire da che parte stai, di che religione sei. Ma una volta che ci si abitua a questo, vivere qui è fantastico, è talmente interessante che non ci si stanca mai“. Comincio a capire il rapporto che lega questa città alla gente che ci vive.
I primi giorni, com’è normale, il ritmo è marcato dalle esigenze dell’istallazione: conoscere la scuola di mio figlio, parlare coi professori, cercare i negozi dove comprare materiale scolastico, i supermercati dove fare la spesa, capire dove trovare la bombola del gas, etc.
In tutto questo bailamme mi colpisce in pieno il fatto che è la prima volta che vivo in un paese di cui non comprendo la lingua, e neanche l’alfabeto scritto. Scruto l’interno dei negozi come se fossi impedita, perchè l’insegna non mi dice niente. E scopro che non è affatto detto che con l’inglese uno se la cava.
Questa mattina cercavo un ufficio postale. Me ne avevano indicato uno ma lontano da casa mia, e con la bufera d’acqua che si è abbattuta su Gerusalemme non avevo voglia di spingermi troppo lontano. Al supermercato ho chiesto a tutti quelli che incontravo: parli inglese, parli inglese? Nessuno. I pochissimi che lo balbettavano si ritiravano di fronte alla mia richiesta (forse in effetti avrei fatto meglio, in un supermercato, a chiedere dove si trovano le patate, piuttosto che un ufficio postale!). Alla fine l’ho trovato da sola. E mi ero dimenticata di quante, quante cose si scoprono di un posto, quando si è alla ricerca di qualcosa.
Gerusalemme è una città molto bella, e non solo nella sua parte vecchia. Sto scoprendo dei posticini meravigliosi, degli scorci mozzafiato, fatti di pietra, di vecchie case arabe, di angolini di pace. Qua e là dei parchi ben tenuti, delle antiche chiese, delle zone pedonali con negozietti tutti da scoprire. Sapere che ho davanti a me mesi per esplorare ogni anfratto mi riempie di gioia.
Così come mi riempie sentire il muezzin da casa mia. E’ un suono antico, buono. E subito dopo suonano le campane delle chiese cristiane. Un suono più imponente, più brioso. Mi sembra fantastico vivere in un posto in cui si concentrano e convivono tutte queste diversità – religiose, etniche, storiche.
E mi fa già soffrire vedere che non si può approfittare di questa incredibile ricchezza che viene dalla diversità. Magari cambierò idea. Un altro dei ritornelli che circolano in questo luogo è che tutto quello che uno pensa di questo paese quando arriva, cambia radicalmente dopo che ci ha vissuto per un po’.
Per il momento so alcune cose con certezza:
– che non posso guidare come facevo a Lima perchè qui il controllo è ferreo e le multe fioccano;
– che l’humus è delizioso;
– che il week-end dura tre giorni: venerdì ho a casa il marito, sabato marito e figlio, domenica il figlio;
– che sarà difficilissimo decidere se Gerusalemme mi piace di più di giorno, avvolta nel suo biancore che cambia sfumatura a seconda dell’ora, o di notte, quando si trasforma in un tappeto di luci di tutti i colori;
– che quella in cui sono approdata è una delle realtà più stimolanti, interessanti e complesse che mi sono mai trovata ad affrontare.
Claudia Landini (Claudiaexpat)
Gerusalemme
Febbraio 2010
Foto ©ClaudiaLandini