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Francesca è una cara amica di Expatclic e “questo non è un articolo sulla Turchia o su Istanbul. E’ una cronaca, frammentata e abbastanza personale, sui miei primi due mesi da espatriata in questo nuovo paese…”

Grazie Francesca e tantissimi auguri alla piccola Luna!!

Parto fortunata, lo dico subito.
A Venezia mi ero inserita bene, avevo aperto da poco il “mio” nuovo studio legale e le cose sembravano anche ingranare. Ma non ho avuto alcuna esitazione quando Rob mi ha proposto di trasferirci a Istanbul. Per quanto? Chi lo sa. A tempo indeterminato, se le cose vanno bene.
Parto fortunata perchè sono innamorata. In realtà stiamo partendo in tre, anche se lei è ancora dentro la mia pancia. Arriverà a maggio: ci lascerà sei mesi per organizzarci, dunque.
E parto privilegiata perchè per la prima volta non dovrò preoccuparmi dei soldi. Dell’affitto. Delle spese.
Arriviamo a Istanbul la sera del 21 novembre 2007, provvisoriamente sistemati in un residence nella parte asiatica.

Il primo giorno
Il primissimo giorno scendo alle 7.30 con Rob: è presto ma penso di fare un giretto e poi tornare in camera, così per orientarmi un po’, dato che non ho idea di dove siamo (non sapevo nemmeno il nome del residence).
Chiedo ad una donnina dietro un banchetto di simit (pane col sesamo) di indicarmi nella cartina dove ci troviamo rispetto a Űskűdar… lei, efficientissima, ferma un dolmuş (taxi collettivo) e mi fa salire.
Bene, non so dove sono e non so neanche dove sto andando. Alle 7.40, ancora con le caccole negli occhi.
Cerco di osservare con attenzione quello che vedo fuori dal finestrino… comunque, vedo che il dolmuş è diretto a Kadiköy (che so collocare nella cartina): un porto a sud, sul Mar di Marmara, incasinatissimo, come piace a me. Scendo e vado subito a gustarmi il paesaggio: Bosforo, mare, gabbiani, gente che corre (erano le 7.55)… mi sentivo una dea.
La mia strategia è chiamare Nazan (quella che diventerà la mia fata turchina, ossia la segretaria di Rob) e chiedere a lei il nome del residence e l’indirizzo (per poter tornare, no?), ma lo potrò fare dopo le 9:30.
Quindi decido di vagabondare per le stradine, mentre il mercato si sta svegliando. Ero pacifica come non mai.
Dopo un po’ mi fermo in un posticino e prendo un tè con una cosa che vedevo prendevano tutti: prego che non contenga peperoni o carne di cammello affumicata (erano le 8.20), e mi va bene.
Ho la bella idea di chiedere al cameriere di indicarmi nella cartina dove cavolo ci troviamo, ma figurati, quello chiama un cliente che spiaccica mezza parola d’inglese e che decide di accompagnarmi agli autobus. E’ davvero gentile, tanto che mi dà il suo biglietto da visita e dice “telefòn – problem“.

Insomma, salto su un altro dolmuş diretto a Űskűdar Moedani (che ricordavo per esserci già stata l’estate scorsa, in vacanza) e voilà. Altra passeggiatina davanti al Bosforo, ma questa volta proprio davanti alla sponda europea. Stessa atmosfera di prima, solo più incasinata. Passeggiatona per il mercato, mi perdo, giro, vago, torno, cammino cammino, arrivano le 9.40.
Trovo un posto coi telefoni e chiamo la Nazan, che ride per tutta la telefonata a sentirmi. Ottengo le informazioni ed esco ancora più tranquilla.
A quel punto mi merito una spremuta d’arancia seduta in pace coi Turchi, no?

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Dopo, mi faccio altri quaranta minuti di camminata per tornare agli autobus, quindi salgo su un dolmuş per Kadiköy e, una volta qui, decido di cambiare e di prendere un otobűs: sempre pregando di essere salita su quello giusto mi siedo e guardo fuori per verificare che la strada sia quella dell’andata… vana speranza, erano tutte strade a senso unico anche all’andata!

Ad un certo punto arrivo su un lungomare bellissimo che mi pareva di essere in California. Secondo il mio scarso orientamento dovrebbe essere giusto. Scendo ad una fermata che credo sia vagamente in direzione del residence, attraverso una tangenziale a 15 corsie e mi trovo in un parco. Insomma, non so neanche io come, ma sono arrivata proprio davanti alla venditrice di simit di cinque ore prima.
Che appena mi vede mi corre incontro e mi fa sedere al suo banchetto. Ferma una signora che funge da interprete e le spiego che grazie a lei ho fatto questo giro bellissimo e la ringrazio. Al che lei mi abbraccia (!!!).
Mi dice che se ho bisogno di un posto in cui stare posso andare a casa sua, allora io – col mio magico vocabolario e la mia dialettica tipo “io robinson tu venerdì” le dico che cerco una casa per me, mio marito e il mio bimbo…
Quella si mette subito a prepararmi un simit col formaggino, che davvero avrei preferito evitare, ma mi ha obbligata ad ingurgitarlo tutto “per il mio bebek“.
Inshallah.
Insomma, faccio amicizia e resto per un’oretta seduta con lei dietro il banchetto, mentre lei vende il suo simit.
bosforoA questo punto, è solo mezzogiorno… Vi risparmio il resto, vi dico solo che alle sette dico a Rob di non preoccuparsi, che sarei andata io a prenderlo in ufficio. E sia: dolmuş fino a Kadiköy, autobus per “Altunizade“. Questi scellerati mi fermano in mezzo ad una tangenziale a 27 corsie, con ponti e cavalcavia, col buio, non avevo idea di dove ero, chi ero e cosa volevo… becco due ragazzi che mi fanno segno di seguirli. Inshallah.
Scavalchiamo guardrail e fossati e arriviamo ad una fermata strapiena di gente. A quel punto tiro fuori il biglietto da visita del miorob e dico “bin koja” (= mio marito).
Ero al centro di un capannello di venti persone (rigorosamente masculi). Mi fanno capire che è da tutt’altra parte. Evviva.
Uno di loro decide di telefonare e io penso “mammamia adesso il miorob si preoccupa” (figurarsi, quello se la rideva sotto la barba). La Nazan spiega loro come farmi arrivare e io mi incammino verso la mia meta: “maximum bir chilometer“.
Insomma, eccomi arrivata, inshallah, e il miorob è lì che sghignazza.
Scopro che per dire “mio marito” bisognava dire “benim koja” e che io andavo dicendo “mille mariti”.
Prendo il mio millesimo marito e lo porto fuori per il suo gnagnagnantesimo compleanno…. e lui mi (ci) porta a cena all’ultimo piano di un grattacielo, con vista a 360 gradi su Costantinopoli.
Io e la mia bambina a fine giornata eravamo davvero contente.

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La prima domenica
Vista la settimana di fuoco che aspetta Rob, decidiamo di rimandare la visita alla fortezza di Rumeli per affrontare una domenica di riposo: un “normale” finesettimana, da famiglia normale, senza fare i turisti in giro e cercando di annoiarsi un po’ (che ogni tanto fa bene).
Reduce da un inaspettato e invalidante mal di schiena, il Rob si accomoda sul lato passeggeri e io assumo il comando dell’auto: con la mia guida da gondoliera palermitana, ho attraversato il Bosforo e condotto il miorob nella sponda europea, nell’ombelico del mondo, nelle mille luci di Istanbul, dove troveremo una casa bellissima.
Arriviamo al residence Suite Home, proprio dietro piazza Taksim.
Parentesi. Nell’altro residence, a Suadiye, avevamo un appartamento con 3 camere da letto, 3 bagni, stireria (chi io?), cucina e salone doppio, il tutto luminosissimo e arredato in candido bianco. Il che era effettivamente molto elegante, ma decisamente lontano dalla nostra idea di “casa”, più vicina a quella dei coniugi Reagan, piuttosto che per noi due. Chiusa parentesi.)
Qui troviamo un appartamentino coi fiocchi, carino carino, che mi piace tantissimo, quasi quasi ci resterei per qualche mese!
Pensiamo di schiacciare un pisolino. Di tre ore. Sonno profondo, in cui ho sognato di essere rapita e rinchiusa nel castello di UR OR (???), nei sotterranei del residence medesimo, con tanto di fossato e coccodrilli famelici. Vabbè. Considerato che ci eravamo alzati circa alle 11, la nostra domenica da Italiani medi stava andando a gonfie vele.
Così il Rob si mette al computer e comincia a lavorare un po’, mentre io scendo per fare spese: armata di vocabolario, riesco a comprare insalata, uova, pane, formaggio, vino bianco, olio d’oliva, aceto…. e torno su con le mie tre sporte di viveri, contenta come una pasqua: perché è vero che qui si mangia benissimo, davvero, bene bene e anche sano, però i sapori sono fortissimi. Figuratevi io, abituata a semolino e zucchine lesse!

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Dovevate vederci: lui seduto al pc con bicchiere di vino e formaggio e io stravaccata sul divano col mio fedele librone sulla panza. Due dei. E chi ci ammazza a noi!
Ora di cena: imbandiamo il tavolino con la nostra insalatona fresca e vitaminosa, che pur non avendo il minimo sapore ci è piaciuta tantissimo, e ci prepariamo davanti alla tv turca.
Non ci crederete, ‘sti Turchi: 400 canali, la metà pornografici!!! I nomi dei canali erano tutto un programma: “arab porno”, “erotic arab”, e via dicendo. E vi assicuro che non erano velate, le signorine.
Comunque, a forza di cercare…. RAI TRE, REPORT!!!
Mai in Italia abbiamo passato la domenica sera davanti alla tv. Che emozione!

La gita sui Dardanelli
Pochissimo tempo per fare turismo, lo sapevamo. E pensare che siamo partiti dall’Italia con sei chili di Lonely Planet (oltre alla Turchia: Grecia Continentale, Balcani Occidentali e Asia Centrale).
Così, appena riusciamo ad infilare tre giorni di seguito partiamo per una gita vera, fuori città. L’occasione è il ponte di Capodanno. Prendiamo la macchinina con meta… intanto andiamo poi decidiamo. E così eccoci qui, diretti verso i Dardanelli.
Abbiamo miti propositi: data la condizione della mia panza non dovrei stare in macchina tante ore, dovrei evitare sobbalzi e traumi. Infatti, dopo un’ora di viaggio incorriamo in una sterrato non segnato sulla mappa, chissà quanto lungo e chissà verso dove. Finché vediamo il mare sulla sinistra non c’è problema.
Praticamente l’idea è di circumnavigare il Mar di Marmara, attraversando i Dardanelli.
Arriviamo a Gelibolu (Gallipoli) la sera, brutti e sporchi e con due sorrisi così. Pensioncina sulla spiaggia e cenetta sul porticciolo a base di pesce (lui) e hummus (io). In realtà il luogo è molto squallido ma vuoi mettere? … siamo sui Dardanelli!
La mattina ci svegliamo prestissimo e ne approfittiamo per uscire a vedere l’alba… che non si vede perché è dalla parte opposta. Ma che bello però.
Prima di attraversare i Dardanelli ci fermiamo ad esplorare le fortezze (kalesi) di Akbaş e Kildűlbahir (già, abbiamo una passione ingiustificata per tutto quello che si avvicina ad una fortezza: riusciamo a trovarne ovunque andiamo!).
Passiamo lo stretto e andiamo a Truva (sì sì, Troia, proprio quella dell’Iliade): chi ha detto che “sono solo due pietre” merita di essere lapidato appunto.
bosforoUn fascino indescrivibile. Sarà che siamo arrivati all’una e non c’era nessuno, c’era un sole tiepido e tanto vento… Abbiamo passato tre ore a camminare, osservare, tornare indietro, annusare le pietre…
Avevamo una guida (cartacea) che spiegava proprio tutto tutto: sapete che ci sono 12 livelli diversi, cioè che la città è stata ricostruita un sacco di volte sulle proprie rovine? Il primo strato risale a 5000 anni fa, nell’Età del Bronzo!

E poi sapete che dicono che in realtà il famoso cavallo sia solo una leggenda e non sia mai esistito nella realtà? Beh, secondo una teoria, osservando una delle porte (la Porta Ovest) delle mura di Troia VI, si possono immaginare le tracce dei tentativi di allargare l’apertura della porta per far entrare l’enorme cavallo dentro la cittadella: una volta fatto entrare il cavallo, l’entrata sarebbe stata richiusa velocemente con delle pietre più rozze… che effettivamente si vedono! Insomma, non so che valore storico possa avere, però è una spiegazione seducente e mi soddisfa.

Passiamo davanti alla Porta davanti a cui si svolse il duello tra Ettore e Achille (frequentata da un sacco di scoiattoli che saltellavano intorno), facciamo in tempo a finire il giro che arriva un pullman pieno di giapponesi… viaaaaa!

E così ci dirigiamo verso Tenedo (oggi Bozcaada), un’isoletta subito fuori dei Dardanelli, sul Mar Mediterraneo. Ci accoglie una fortezza maestosa, imponente, ben conservata, con all’entrata il numero di telefono del custode, pronto ad accompagnarci in una visita in qualunque momento.

Per noi Veneziani quest’isola ha un significato particolare: data la sua posizione strategica, è stata più volte terra di conquiste (reciproche) tra Venezia e l’Impero Ottomano.

A parte questo, l’isola è proprio quello che mi aspetto da un’isola: ha un po’ di Favignana, un po’ di Ustica, un po’ di Linosa. Mancano solo i fichi d’india. L’abbiamo esplorata in lungo e in largo. Per la prima volta sono stata proprio sotto un mulino a vento: mi sentivo piccola piccola!

La sera di Capodanno c’erano solo tre bar aperti: due abitati solo da clientela rigorosamente maschile, immersi nella nebbia delle sigarette e silenziosissimi davanti alla televisione. L’altro, una magia: ragazzi spuntati fuori da chissà dove, sorprendenti, curiosi, che si capiva che si conoscevano da tempo. Ho dedotto che erano “tornati a casa” per le feste, magari da Istanbul, Ankara, Bursa, chi lo sa, e si ritrovavano come in una sera d’estate, ad una festa in spiaggia.

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Abbiamo ballato scatenati in mezzo a loro fino alle due, io Rob e la panza. Fino a quando – giuro – è arrivata la polizia e ci ha mandati a casa… forse davamo fastidio alle pecore!
La mattina dopo ci siamo svegliati ridendo. Ultima passeggiatina, traghetto, finiamo di circumnavigare il Mar di Marmara e arriviamo a Istanbul da sud.


bosforoFinalmente casa!

E finalmente arriva il giorno in cui entriamo nella nostra “casa”. Accuratamente selezionata da me medesima, dopo aver visitato tutte le agenzie immobiliari e le case in affitto disponibili a Cihangir.
Perché è qui, in questo quartiere, che abbiamo deciso di vivere: dove scendi e puoi camminare a piedi, puoi andare dappertutto, con negozietti e bar colorati e le stradine che ricordano un po’ Parigi. Non abbiamo vista sul Bosforo, per quella dovevamo spostarci di qualche centinaio di metri e noi invece volevamo stare proprio lì.
Mi avevano detto di prepararmi ai tuttofare turchi: chiedi al pittore se sa fare una fontana per il giardino, e lui ti dirà di sì. Ebbene: confermo. Ma forse un po’ dappertutto è così.
Quindi ci siamo più o meno (molto meno che più) installati in casa. Non funziona NIENTE, ma un po’ alla volta vinceremo.
Sono venuti in squadra i tecnici del gas e, alla terza visita, hanno stabilito che non ci sono perdite. Che la puzza che si sente quando i fornelli sono accesi non è gas. Chissà cos’è. La soluzione? Aprire la finestra quando si cucina. Bene.

La caldaia si ferma solo ogni tanto, ma in generale la casa è calda. La lavatrice perde ma solo quando è in funzione. Il frigorifero si chiude se gli dai un colpetto in basso. Il modem non funziona ma posso chiedere aiuto al titolare del bar sotto casa, che è esperto e gentile.
L’allarme del gas sarà riparato dal figlio del padrone di casa: c’è solo un filo tranciato, no problem. Ieri sera mi sono liberata della molotov che giaceva indisturbata fuori dalla porta: sono andata dai ragazzi del posteggio e gli ho detto “bu hediye” (è un regalo).
Erano felici come delle pasque.

Però abbiamo l’home theater con l’antenna satellitare, così possiamo vederci tutti i telegiornali e brunivespa e chilhavisto e così sappiamo come procede il delitto di cogne e quello di perugia. E chi ci ammazza?

Verso l’integrazione
E un po’ alla volta scopriamo le piccole cose che fanno la quotidianità.
Il parrucchiere, ad esempio. Non certo per me (zazzera incontrollabile, basta una sforbiciatina una volta all’anno), ma per il Rob, che ormai assomiglia a un fungo. Su consiglio dell’amico Saigun prenotiamo da Suleyman Kuaför e chiediamo proprio di Ali Bey (il signor Ali).
Che prende il miorob, lo lava anzi lo striglia, taglia un capello alla volta (davvero, uno alla volta e anche più volte, con piccole sforbiciatine impazzite), gli offre il tè per ben tre volte finché alla quarta decide di accettare, lo rilava, lo asciuga pettinandolo come totocutugno, con banana (!!!) e infine lo immerge in un’acqua di colonia che sembra succo di acciughe di Trebisonda. E io seduta compostamente sul divanetto, a sfogliare riviste e a ridacchiare senza pietà.

La cosa più importante, comunque, era trovare il dottore che farà nascere la picciridda.
Non è difficile incontrare dottori che parlino inglese. Ho trovato diverse strutture (private) specializzate, pulite e pronte a offrire assistenza in inglese. Il sistema sanitario pubblico è da dimenticare, a quanto pare: chi può si fa un’assicurazione e evita accuratamente di mettere piede in un ospedale pubblico.
Peccato, avrei preferito una struttura pubblica (deformazione etica), ma mi è stato detto che la cosa migliore che mi potesse capitare era partorire e “tornare a casa con una bambina non mia”. Inshallah.

Però il medico giusto l’ho trovato. Parla perfettamente inglese e francese e ha una moglie parigina. Ho anche scelto l’ospedale in cui partorirò, piccolo e pulito e raggiungibile con la metro (avete idea del traffico che c’è qui? Sono sicura che se mi metto in macchina la mia bimba nascerà lì, sul sedile posteriore, tra clacson e improperi!).
Resta il fatto che vorrei farmi capire anche dalle ostetriche, in quel momento. Voglio proprio che mi capiscano, quando le insulterò…

E’ vero, è necessario potersi esprimere, per cominciare la vera integrazione. E si sa, il turco è piuttosto diverso da qualunque lingua uno possa conoscere. Così ci siamo iscritti alla famosa scuola “Tömer”.
La prima cosa che ci ha colpito è che in una scuola come quella, frequentata da studenti di tutto il mondo, gli impiegati non spiaccicassero una parola di inglese. O quasi.
Quando la scuola è iniziata ancora non ci eravamo trasferiti a Cihangir, ma vivevamo in un quartiere nella parte asiatica di Istanbul (ne abbiamo cambiati diversi apposta per conoscere la città) che significa “mandorla amara”, Acibadem.
Così, il primo giorno di scuola partiamo dall’Asia con l’otobűs strapieno di gente che eravamo stritolati come sardine. Poi prendiamo al volo il traghetto Űskűdar-Kabataş e attraversiamo il Bosforo. Il miorob, che per una volta non doveva guidare nella jungla, era lì che si ammirava i gabbiani che era un piacere guardarlo.
Infine, ci infiliamo nella funicolare e scendiamo a Taksim, rilassati e sciacquati.

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Ci presentiamo così belli e profumati in classe. Io avevo il quaderno di Candy Candy, Rob quello di Jeeg Robot d’acciaio. Ci mancava solo la cartella e il fiocco sul grembiule.
Avevamo anche i libri nuovi, sapete quelli che profumano di carta appena stampata: un libro tipo abbecedario, proprio identico al sussidiario di prima elementare, con le figure e i disegnini, e un libro di esercizi, che mi ricordava i libri per le vacanze delle elementari per bambini ritardati.
In classe, oltre a noi due, c’è un norvegese, due nigeriani, una canadese, un indiano, un pakistano, una polacca e una russa che non poteva non chiamarsi Olga.

La lezione è cominciata…. con me che PIANGEVO… dal ridere! Giuro. Non mi era mai capitato, giuro. Praticamente, la maestra comincia la lezione rivolgendosi al Rob. Rigorosamente in turco.
Dovevate vedere la faccia del mio millesimo marito… talmente confuso che solo dopo mezz’ora capisce che deve ripetere esattamente le parole pronunciate dalla maestra. In realtà è che veniva da ridere anche a lui, quindi era bloccatissimo, povero. Già lì c’era motivo di ridere.
Ma il bello è quando ha tentato di ripetere…. sapete quando uno cerca di trattenere le risate e fa peggio? … Io ho cominciato a lacrimare, poi a singhiozzare, poi alla fine mi tenevo la pancia sotto il banco… a crepapelle, con la bocca spalancata che avranno visto il colore delle mie mutande verdi.
Vi dico solo che la maestra credeva avessi qualche problema, mi ha chiesto se stavo bene, mentre io non riuscivo a smettere di piangere e ridere insieme…

E così, ogni sera prima della lezione, qui nella nostra casetta nuova tutta rotta, mentre la bimba fa le capriole dentro la mia panza, io e il miorob ci sediamo al tavolo e non andiamo a letto senza aver finito i compiti.

Gűle gűle!!

Francesca,
Inverno 2008
Istanbul, Turchia

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