La lettera-diario che Federica ci manda oggi parla di un tema molto, molto complesso, quello dei genitori sotto occupazione. Grazie Fede, per informarci e farci riflettere su tutte queste cose.
Sento il frinire delle cicale e il cinguettio degli uccelli che inusualmente prevalgono sul rumore delle auto in circolazione, poche il venerdì mattina e finalmente una piacevole brezza muove l’aria e porta via la sabbia che ci ammorba da giorni.
Il ronzio degli elettrodometici amplifica il silenzio, il frigo strapazzato da svariati trasferimenti funziona sempre, ogni tanto fa degli schianti, mia sorella mi dice che è segno di ottimo funzionamento, non ho approfondito.
La lavatrice gira senza sosta, l’acqua è arrivata nella notte, in ritardo di oltre dodici ore rispetto al programma e quindi abbiamo meno tempo per fare tutte le levatrici.
La gatta sonnecchia, io sto scrivendo con voi negli occhi e le vostre voci nelle orecchie, mio figlio disegna, deve fare una cinquantina di schizzi a penna come compito scolastico estivo oltre ad altre poche cose per cui sparisce nel suo spazio.
Ha posizionato il tavolo dove lavora davanti ad una ampia finestra con vista sull’orizzonte lunare di questa zona della Palestina, ogni tanto accapa per chiedermi qualcosa o farmi vedere i suoi schizzi, sa che lo stimo e quindi non lo tratterò mai con condiscendenza. È terribile la condiscendenza, è conformista e paternalista; profondamente offensiva.
Mio figlio, moltissime di voi mi chiedono di lui, un po’ perché lo conoscete un po’ perché vi/mi chiedete come se la cava un adolescente in questa situazione di violenza e che gli impone gravi limiti e dove lui, maschio adolescente è un obiettivo militare primario.
Questo è senz’altro vero, ma devo scrivervi con amarezza che questa militare grammatica di genere è saltata, bambin+ e giovan+ sono l’obiettivo, è la radice che garantisce la riproduzione umana, sociale e culturale. Va eliminata tutta. È il ricatto che fa vacillare noi adult+.
Parlare di come sta mio figlio significa scoperchiare la difficoltosa e dolorosa questione della genitorialità sotto occupazione.
Ne parliamo con le amiche della frustrazione e della paura di non poter proteggere quest+ figl+, qui murate vive , ingabbiate non da mariti oppressivi e violenti come vorrebbe la banale propaganda coloniale, ma dalle politiche dell’ alleanza coloniale sionista profondamente patriarcale, misogina e omotransfobica che ci scannerizza, ci viviseziona, siamo un carnaio su cui sperimentare di tutto, da vive e da morte.
Mi fanno sorridere le femministe alla Betty Friedan che hanno la sfacciataggine di venire qui in pompa magna a parlare di violenza contro le donne e parità di diritti. Non si sa dove guardare mentre sbrodolano parole vuote piene di pregiudizi e sterotipi e sgambettano in lungo e largo per il paese tronfie e autocompiaciute della propria libertà.
La cosa con cui dobbiamo confrontarci è che i nostri figli e le nostre figlie, qui e ovunque andranno si dovranno confrontare per tutta la vita con la violenza sterminatrice e gli stereotipi razzisti: violente e intimidatorie perquisizioni fisiche e dei propri oggetti, minacce, armi puntate addosso quando vengono fermat+ ai posti di blocco, quando attraversano la frontiera, quando attraversano i check-point che riempieno le strade. Ma quanto è asettica e inadeguata la parola check point.
E noi adult+ deprivat+ di poter provvedere alle funzioni genitoriole primarie: la protezione e il cibo. L’amore no, quello non possono controllarlo, non c’è muro, filo spinato o drone o cecchino che possa contenerlo, intimidirlo, gestirlo.
Non possiamo proteggerl+ dalla violenza della terra scarnata dal filo spinato e dalle perverse infrastrutture militari, dai soldati che ci fermano umiliandoci e ricattandoci, dalla nostra stessa paura e frustrazione. Non possiamo proteggerl+ dalle parole violente che leggono ovunque e che le/li vogliono mort+, non possiamo proteggerl+ dai rastrellamenti che li ingoiano in buchi neri dove vengono torturat+ e seviziat+.
Possiamo solo equipaggiarl+, prepararl+, devono avere le spalle larghe e gli strumenti per affermare la propria esistenza, con le loro parole e la loro lingua, con la loro narrazione che non richiede legittimazione alcuna e certo non quella degli/delle aguzzin+.
E l’unico modo è viverlo tutto questo, guardarlo in faccia, e imparare a gestire e governare il proprio corpo e le proprie emozioni perchè non è una condizione passeggera.
Noi genitori potremmo mettere i para spigoli, ma non gli insegneremmo a riconoscere il pericolo e a diventare responsabili di se rispetto al contesto agli spazi in cui si muovono.
È vertiginoso perché questo significa esporl+ al pericolo di vita.
Chi conosce la Palestina ha famigliarità con le frotte di bambin+ per le strade che tornano dalla bottega, giocano, girovagano oziando goduriosamente come solo a questa età si riesce a fare. Non pochi sguardi occidentalisti ci vedono negligenza genitoriale. È vero che ci sono delle differenze di stili genitoriali a seconda delle condizioni socio-economiche che non hanno a che fare con l’istruzione, ma con delle aspirazioni e con le influenze culturali che i processi di globalizzazione diffondono omologando e appiattendo le differenze. Ma, la strada qui è un passaggio obbligatorio per riconoscere i pericoli e imparare a proteggersi. Lo è stato anche per me.
Negli ultimi anni, quando per esempio dobbiamo uscire dal perimetro cittadino facciamo un giro di telefonate e cerchiamo nelle notizie locali se è il caso di avventurarsi o è meglio rimandare di qualche giorno.
L’ orecchio deve essere teso, allertato perché potrebbe essere che i militari entrino con i loro mezzi, armati fino ai denti e allora occorre mettersi subito al riparo, poco male se devono passare ore prima di rientrare a casa. Ma è quel gesto di fermarsi a guardare e ad ascoltare alla ricerca di rumori sconosciuti a chi come me è nata e cresciuta in realtà dove non ci sono militari che occupano le strade per arrestarti e uccederti perché sei palestineserab+musulman+terrorista.
Il rumore dei mezzi cingolati, degli spari, e anche riconoscere movimenti inusuali, magari la strada deserta, oppure un silenzio carico di tensione, i negozi che si affrettano ad abbassare le saracinesche tirando dentro i clienti per nascondersi e tentare una protezione.
Ieri in un quartiere residenziale in pieno giorno degli infiltrati sono scesi da un auto armati fino ai denti per prendere una persona che hanno caricato di forza sulla loro macchina con targa palestinese e portato via. Sono infiltrati che si camuffano e danno la caccia a persone che ricercano. Basta poco per trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato oppure uno sbaglio e ti ritrovi oggetto di queste azioni e poi il pensiero che in città circolino queste figure davvero terrorizza, non sai mai chi hai accanto. Si insinua il sospetto che impone la riservatezza e modella la personalità, come mi ha fatto notare un’amica un po’ di tempo fa quando mi ha detto che inizialmente mi trovava respingente perché troppo chiusa, troppo silenziosa, troppo sulle mie.
Ecco allora che ogni scelta è un continuo negoziare per soppesare il pericolo. Dove andare, a che ora, con chi, con quale mezzo. Un’auto con soli maschi è un obiettivo militare certo, idem se ci sono giovani, sia maschi che femmine, va meglio se ci sono almeno due donne chiaramente adulte. E quando guidi ricordati di tenere entrambe le mani sul volante, i documenti fuori a portata di mano per non dover prendere borse e fare movimenti che innervosirebbero i soldati se ci fermassero e se fuori è già buio e ci si trova davanti un check point accendi la luce e fatti vedere altrimenti potrebbero sparare e occhi davanti e dietro perché i/le colon+ assaltano le macchine con targa palestinese all’improvviso buttandosi in mezzo alla strada e in questo caso, mi hanno detto, accelera e vai dritta perché se ti mettono le mani addosso…. Ma se per caso, accelerando fai male ad uno di loro….
Come sta mio figlio? Ha le spalle larghe e un senso di responsabilità che mi commuove. Sta molto in casa e in genere in posti al chiuso, dove si incontra con amici e cugini e gli piace stare anche con noi genitori e con gli adulti a parlare, gli è sempre piaciuto, è socievole e se trova qualcuno disposto a giocare a carte, a calcetto, a scacchi poi non ne parliamo, si mette comodo. Va in palestra scortato dal suo babbo che né approfitta e sta imparando la dabka ( دبكا), danza in circolo che richiede fiato e ginocchia sane. Gli manca l’autonomia di poter uscire e muoversi con i mezzi pubblici per andare in altre città dagli amici e con gli amici, gli manca l’anonimità delle grandi città dove tu fai parte della maggioranza dominante come è lui in Italia per cui ti mimetizzi.
Qui no, monti in macchina e già la targa dice chi sei per non parlare di dove vivi, Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme est, e tutto questo non è omissibile e ti sgnuda davanti al mondo che ti circonda. Ma tutte queste sono mancanze relative perché quando poi è in Italia gli manca la Palestina, gli manca casa, gli manca la gatta, gli manca il suo babbo e gli manca anche la forza che deriva dal sentirsi parte di una collettività coesa su dei valori profondi come la solidarietà e la lotta per l’autodeterminazione che lo trascende come soggetto, una società anagraficamente giovane per cui effervescente, energia che non è venuta meno neppure negli ultimi quasi due anni di accelerazione della pulizia etnica e di genocidio conclamato, perché chi conosce la Palestina sa che da sempre non passa giorno senza persone uccise e trascinate via dalle loro case perché palestinesi.
Da ottobre duemilaventitre non si festeggia più, niente celebrazioni per i risultati del taujii ( توجيهي )l’esame di stato o di maturità, come più vi piace, né per i matrimoni che si continuano a celebrare con sobrietà. In tant+ non vanno nei caffè, in ogni caso il volume delle voci è basso.
Ma una società giovane è energica e incontenibile e il giovedì sera si sente questa sferzata vitale e nonostante tutto gioiosa, proiettata in avanti, grintosa, combattiva.
Fermatevi a pensare all’età media dei/delle giornalist+ sterminate, tra i venti e i trenta anni. Uomini e donne, spesso sposat+, con figli e figlie, con carriere professionali solide, che israele e i suoi potenti e indispensabili alleati non riescono a impaurire.
Ma come si può pensare di domare, imprigionare, opprimete un’energià così?
È materialmente impossibile. Questo pensiero mi fa venire in mente le parole di una professoressa di storia contemporanea che parlando del progetto nazista di invadere l’Inghilterra affermò che quando una popolazione decide di resistere è molto difficile penetrare i territori e sconfiggerla.
A meno che… e mi affiorano altre parole di un’altra professoressa di storia del nord America, la professoressa con cui mi laureai e che mi ha dato gli strumenti per spostarmi e osservare da altri punti di vista, la professoressa che ha ampliato il mio vocabolario e la mia lingua. La professoressa che sollevò la questione razziale nella scelta di sperimentare la bomba nucleare sul Giappone e non sulla bianca Germania che pure fu rasa al suolo.
Gli USA e gli alleati non riuscivano a piegare e sconfiggere i gialli alleati della Germania nazista. Li avevano fatti studiare dall’antropologa Ruth Benedict, La spada e il crisantemo, un pilastro del femminismo occidentalista, lei era stata all’altezza del compito e aveva colto le peculiarità di questa cultura e della sua società.
Non si sarebbero arresi e c’era una bomba da sperimentare. Andava ristabilita la gerarchia suprematista bianca e così non bastò lanciare una sola bomba, la seconda chiarì chi era più forte. È quella seconda bomba a fare la differenza.
Non si possono deportare due milioni di persone, oltre cinque se nel conto ci metto anche noi che viviamo in Cisgiordania, è materialmente impossibile.
Non si possono deportare milioni di persone che non vogliono andarsene.
Perché vogliono stiparl+ in una zona ristrettissima?
La Palestina conferma che quando un popolo decide di resistere non si può sconfiggere perché l’alleanza delle più forti potenze militari ed economiche del pianeta non riesce a piegare una milizia autoequipaggiata e circoscritta in un territorio piccolissimo; a meno che….
Cerco di scacciare questi pensieri, ma mi tornano in mente le parole del direttore di Altraeconomia che pochi giorni fa confermava che l’Italia ha continuato a commercciare con israele materiali e sostanze fondamentali per la produzione di armi fra cui il trizio, indispensabile per le armi nucleari.








