Home > Asia > Israele/Palestina Occupata > L’immenso valore di far conoscere i nostri paesi d’espatrio

Claudiaexpat riflette sul valore che noi espatriate apportiamo alle nostre famiglie e amicizie, quando vengono a trovarci e facciam loro conoscere i nostri paesi d’espatrio. In particolare, quando questi paesi sono poco noti, o vittime di narrative e stereotipi lontani dalla realtà.

 

In chiave ironica, avevo scritto delle gioie e dolori di avere ospiti nei nostri paesi d’espatrio nella mia Fatidica nr. 4, “Quasi quasi vengo a trovarti”. In quest’articolo mi soffermavo su quanto a volte sia difficile inserire degli ospiti in una routine strutturata che non ha spazio per la vacanza, o ne ha molto poco. Io ne ho sofferto relativamente perché nei primi dieci anni di espatrio ho vissuto in paesi che non erano tra le mete turistiche classiche, e questo tagliava fuori già una bella fetta di potenziali visitatori. Altri, come l’Honduras, meta incontestata di bellezze caraibiche, avevano una capitale (dove vivevo io) decisamente poco attraente, dove la gente al massimo atterrava per poi scappare rapidamente dopo gli abbracci di rito.

In Perù il flusso di ospiti si è intensificato perché il Perù è un paese meraviglioso, e avere qualcuno che ti accoglie nella sua capitale, te la fa conoscere e ti aiuta poi a organizzare il resto delle scoperte non ha prezzo.

 

Soldati israeliani in permanenza a Silwan, quartiere della Gerusalemme Est occupata

 

È stato solo quando sono arrivata in Palestina, però, che mi sono resa conto di come far conoscere i nostri paesi d’espatrio, in alcune circostanze, assuma un valore immenso, che va ben al di là dell’affiancare amici e amiche nelle scoperte delle bellezze culturali o paesaggistiche.

Per chi veniva a trovarmi a Gerusalemme, la scossa cominciava da prima di prendere l’aereo, quando mi raccomandavo abbondantemente di non nominare, una volta arrivati al controllo passaporti a Tel Aviv, la parola Palestina, né di dire che andavano a trovare qualcuno che viveva a Gerusalemme est, o che lavorava in West Bank. In molti casi esprimersi così candidamente costava l’entrata nel paese, perché a discrezione delle autorità israeliane, chi dichiarava di andare a visitare la Palestina poteva venir messo sul primo volo di ritorno e rispedito al mittente. Oppure torchiato con metodi non esattamente gentili, spesso separato/a da chi l’accompagnava, per portare avanti un interrogatorio parallelo, che metteva subito in chiaro che il sospetto è il criterio d’accoglienza di chiunque decida di entrare in Israele. E purtroppo, per accedere alla Palestina, per Israele si è obbligati a passare.

 

 

L’altro elemento che distingueva i soggiorni dei miei ospiti a Gerusalemme da quelli di altri paesi precedenti, era che i poveri/e si trovavano di fronte a una Claudia carica come una miccia. Come ho spiegato più volte, vivere in quell’area scava goccia a goccia nell’animo delle persone che hanno a cuore la giustizia, e a farne le spese è chi arriva fresco fresco e all’oscuro della portata delle cose. Perché pur rispettando e agevolando il desiderio di conoscere la città storica, i luoghi di culto così famosi e l’atmosfera poli religiosa che permea la città, io ho sempre messo subito in chiaro che quello che avrei mostrato ai miei ospiti era la realtà di ciò che la brutale occupazione militare israeliana imponeva ai Palestinesi.

E così ho fatto, con decine di persone che si sono susseguite negli incredibili quattro anni e mezzo che ho avuto il privilegio di trascorrere in quella terra.

Farei prima a contare chi non è venuto a trovarmi. È stato un susseguirsi continuo di amiche, amici, famigliari, conoscenti, a volte faticavo a gestire il calendario. E se nei paesi precedenti dopo un po’ mi stancava tornare con gli amici nei soliti luoghi che avevo visto già diciotto volte, in Palestina non ne avevo mai abbastanza di portarli in giro a guardare con i loro occhi quello che stava (e sta) succedendo.

I miei giri avevano il duplice scopo di mostrar loro gli effetti dell’occupazione e di far conoscere i Palestinesi, con la loro storia, umanità, e resistenza. Quindi oltre ai luoghi fisici, creavo anche momenti d’incontro con gli amici e amiche palestinesi. Uno dei classici era, ad esempio, la visita all’edificio della Mezzaluna Rossa Palestinese a Ramallah, dove c’era sempre qualcuno pronto a farcelo visitare in lungo in largo, e con lui tutti gli stupendi progetti in aiuto alla popolazione: centro per i/le disabili, asilo per le donne che lavoravano e non sapevano dove mettere i figli, centro donne con iniziative svariate, tra cui corsi di ballo e ginnastica, oltre all’organizzazione continua di congressi di respiro internazionale.

 

I soldati a Hebron bloccano in permanenza l’accesso ai Palestinesi che non possono raggiungere scuole e posti di lavoro

 

C’era poi la visita a Hebron. Quella la lasciavo un po’ in là nel viaggio perché sapevo che da uno shock del genere ci si riprende a fatica e volevo che ripartissero con le terribili impressioni fresche nella mente e nel cuore. Quando li portavo a Hebron, chiedevo sempre a qualche amico palestinese di farci da guida, e ogni volta, anche per me, era un rinnovare la rabbia e la frustrazione. A Hebron li portavamo a guardare la moschea con la tomba di Abramo, dove nel 1994 il colono Baruch Goldstein era entrato durante l’ora della preghiera, e aveva falcidiato 29 palestinesi, ferendone un altro centinaio, prima di essere abbattuto dalla folla inferocita. Vale la pena far presente che molti in Israele festeggiano Goldstein come un eroe.

 

Spazzatura e altre schifezze che i coloni buttano nel mercato. I negozianti tendono reti tra un negozio e l’altro per tentare di proteggersi

 

Si passava poi al mercato della città, ormai al collasso per via delle chiusure totalmente estemporanee che i soldati israeliani impongono ai negozianti, dell’economia stagnante in un luogo dove abitare è diventato un inferno, e gli attacchi continui dei coloni che, avendo occupato tutti piani alti delle case palestinesi, gettano continuamente escrementi, urina, e spazzatura su chi sta di sotto.

A Hebron esiste una grande strada dove i palestinesi possono transitare solo in un corridoio largo circa un metro e mezzo, mentre il resto è riservato ai coloni, che spadroneggiano liberi e protetti dall’esercito. Esercito che non perde occasione per umiliare palestinesi grandi e piccini, e render loro la vita impossibile, con check-point volanti e sbarrando strade che vengono di solito usate per raggiungere scuole, negozi e luoghi di preghiera.

Handala, uno dei simboli della resistenza palestinese, sul muro di separazione a Betlemme

L’altra parte a cui dedicavo molto tempo era il muro di separazione.  C’erano due punti, in particolare, nei quali mi sembrava importante mostrarlo: Beit Hanina, il quartiere nel quale ho vissuto l’ultimo anno a Gerusalemme, e Betlemme. Nel primo caso, mostravo loro come il muro percorresse tutto il quartiere fino ad arrivare al check-point di Qalandia, che ogni giorno vede decine di Palestinesi ingabbiati e sottoposti a umilianti pratiche per poter entrare a Gerusalemme, solitamente per andare a lavorare, perché in caso contrario, il permesso non viene quasi mai concesso, neanche per ragioni di salute. Succedeva spesso, mentre avevo ospiti nel piccolo appartamento di Beit Hanina, che alzando lo sguardo verso la sommità del muro, si vedesse qualcuno che l’aveva scalato per entrare a Gerusalemme. Con un sistema di corde e di avvisi da una parte e dall’altra, chi aveva famiglia nella Città Santa, dalla quale era stato brutalmente separato, riusciva spesso a introfularsi anche solo per un abbraccio fugace. Se la polizia israeliana se ne accorgeva, invece, era la galera. Quante volte abbiamo visto camionette dell’esercito rincorrere dei giovani che a piedi scappavano nei cortili delle case, nella speranza disperata di far perder loro le tracce.

Vale la pena di far presente che il muro di divisione che Israele ha iniziato a costruire nel 2002, su un percorso di circa 730 chilometri, che ingloba fette del territorio non assegnato a Israele al momento della sua creazione, con il pretesto di difendersi dai terroristi, ma con il reale intento di isolare, umiliare e brutalizzare un popolo già allo stremo, è stato dichiarato illegale dal Tribunale Internazionale dell’Aia nel 2004. Molte famiglie si sono viste erigere il muro di otto metri a pochi centimetri di distanza dalle finestre. Altre da un giorno con l’altro si sono trovate a non poter più visitare amici e parenti, o raggiungere il posto di lavoro senza un permesso speciale rilasciato dalle autorità israeliane. A Betlemme il muro è diventato un’attrazione turistica. I murales che l’hanno popolato dal lato palestinese sono così tanti e belli, che i turisti lo percorrono solo per fotografarli. Ce ne sono anche alcuni del famoso Banksi.

Più che le opere d’arte, però mi è sempre premuto far presente ai miei ospiti cosa significa un muro del genere nella quotidianità delle persone. Per me che andavo a Betlemme due volte alla settimana per far coaching al fantastico gruppo che lavorava in un’organizzazione in appoggio di adulti disabili e le loro famiglie, il problema è sempre stato relativo perché non mi hanno mai impedito di passare. Per chi vive da anni a Betlemme, entrare a Gerusalemme non è stato più possibile dopo la costruzione del muro, e la vita e l’economia della città sono drasticamente cambiate. Per non parlare dell’imposizione a molti contadini e pastori, di non poter più entrare nelle loro terre, ora isolate dal muro o da filo spinato.

 

Lifta

 

Mi piaceva anche, se c’era sufficiente tempo, far fare ai miei ospiti un giro delle case espropriate a Gerusalemme, di cui ho raccontato qui, e mi rammarico di aver scoperto Lifta troppo tardi, altrimenti avrei portato tutti anche lì, per mostrare uno dei villaggi palestinesi che non è stato raso al suolo, ma i cui abitanti son stati fatti fuggire e non hanno mai più potuto riprendere possesso delle loro abitazioni.

Quando il soggiorno finiva, cominciava la preparazione nell’affrontare l’interrogatorio in uscita all’aeroporto di Tel Aviv. Questo era soprattutto importante nel caso di amici dei miei figli, dato che i giovani, soprattutto uomini, venivano sempre guardati con sospetto e sottoposti a trattamenti speciali, tra i quali essere lasciati in mutande in un ufficio mentre i loro abiti e scarpe venivano sottoposti ai controlli più rigidi, smantellamento totale delle valigie, confisca di alcuni oggetti, tra cui iPad e ceramiche, per dirne una, o allontanamento immediato dai propri cari, e scorta vigilata fino all’aereo. Tutto per far passare la voglia di tornare – e ho conosciuto infatti alcune persone che hanno mollato i congiunti in Terra Santa, dove non hanno mai più voluto mettere piede, per via del trattamento subito all’aeroporto.

Quando ripenso a quel periodo oggi, e lo confronto con le visite che si sono poi succedute in Indonesia e in Svizzera, i miei due paesi ospitanti successivi alla Palestina, mi rendo conto di quanto sia stato importante non solo per me, ma per tutte le mie amicizie e conoscenze, trascorrere un periodo in quei luoghi. E mi rendo anche conto della fatica, immensa, di tornare a un registro normale. Mostrare le spiagge a Bali o il jet d’eau a Ginevra aveva tutto un altro sapore rispetto ai giri in cui accompagnavo i miei ospiti a Gerusalemme e dintorni. Tutti e tutte loro, nessuno escluso, ha continuato a ribadirmi, anche dopo anni, che non avevano idea di come stanno davvero le cose in Palestina, e che sono tornati/e da quel viaggio completamente cambiati. E poche cose nell’espatrio mi hanno resa così felice e orgogliosa.

 

Claudia Landini (Claudiaexpat)
Volterra, Italia
Gennaio 2024
Tutte le foto ©ClaudiaLandini

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