Daniela è una psicologa clinica/psicoterapeuta italiana che poco più di un anno fa si è trasferita a Londra, alla ricerca di un ambiente più propizio alla sua professione. In questo interessantissimo articolo riflette con noi su cosa succede quando ci si trasferisce all’estero e cominciamo a vivere in una nuova cultura, fornendoci interessanti spunti per cavarcela al meglio. Grazie di cuore, Daniela!
Quante di noi l’hanno fatto? Quanti di noi hanno voluto sentire che quella porta per tornare a casa era sempre aperta…e che trasferirsi in un paese straniero non significasse perdere le proprie origini e gli affetti più significativi…? E’ iniziato tutto con un regalo. Un biglietto di sola andata per Londra e i miei primi 25 chili di bagaglio. Sono partita con l’idea di portare il necessario, “Il resto torno a prenderlo dopo….”.
E così durante il primo anno, alcune di noi sono tornate spesso in Italia a prendere ciò che si era lasciato e, aggiungerei io, a verificare che amici e persone vicine fossero ancora lì, felici di rivederci.
Difficile attuare quel passo di separazione-individuazione dal proprio paese, dalle proprie origini e affetti.
C’è la voglia di andare verso il nuovo spinti da un bisogno di cambiamento, dal “desiderio di cambiare aria” e dalla voglia di trovare qualcosa che fino a questo momento non si è trovata a casa propria; allo stesso tempo la paura di separarsi dalla propria cultura è molto forte e le domande che ci riempiono la testa sono tante (“Sono sola, come faccio se ho un problema? E se le cose non vanno come spero io?”).
Parlare un’altra lingua e stare a diretto contatto con un’altra cultura vuol dire sperimentarsi in maniera profonda e cioè mettere in atto tutte le energie che vengono dalle diverse parti di noi stessi. In Analisi Transazionale si parla di Genitore, Adulto e Bambino (G A B).E’ con questo “bagaglio” di pensieri che arriviamo nel nuovo paese, dove si inizia una nuova fase della propria vita: casa nuova, lavoro e amicizie nuove…ci ritroviamo ad avere a che fare con una cultura diversa che attrae e spaventa allo stesso tempo. In questa nuova realtà, le esperienze di vita quotidiana hanno un carico emotivo molto forte.
L’Adulto rappresenta lo stato dell’Io che permette a ciascun individuo di valutare i dati della realtà obiettiva. Ha a che fare con il contatto diretto nel “qui e ora” e con le esperienze che viviamo nel presente. L’Adulto è necessario per la sopravvivenza; è quella parte che valuta i dati di cui dispone e calcola le probabilità che gli si offrono. Ha anche il compito di regolare le attività del Genitore (che è quella parte che si prende cura, pone limiti, fissa regole, guida, protegge, impone, insegna, critica e giudica) e del Bambino (nel quale risiedono l’intuizione, la creatività, lo spontaneo impulso ad agire e la capacità di godere[1]) e mediare obiettivamente fra i due.
E’ con l’Adulto che in una situazione come questa ci apriamo al cambiamento. La realtà ci appare in un altro modo. Acquisisce tonalità e sfumature diverse e ci porta a vedere con occhi differenti anche i luoghi, le persone e le cose che abbiamo lasciato in patria.
Questo cambiamento rappresenta un’evoluzione, una crescita e una novità che ci spinge verso nuove espressioni della realtà.
Una delle grandi prove che affronta chi si trasferisce all’estero, è quella di poter vivere il presente arricchendo il proprio bagaglio culturale con aspetti linguistici e affettivi della cultura ospitante che vuole fare propri. Ed è in come ognuno rende propri questi aspetti culturali diversi, che risiede l’originalità e unicità dell’identità personale.
Dall’altra parte però, c’è il rischio di vivere in un altro paese, arroccati al proprio bagaglio culturale, di non aprirsi alla nuova cultura e di continuare ad usare lo stesso metro di valutazione di sempre. E’ come se il cambiamento per alcuni significasse “tradire” la propria cultura e separarsi dal proprio Genitore Culturale[2]; ogni separazione se non vissuta bene da entrambe le parti, porta con sé i sensi di colpa per aver deciso di individualizzarsi.
Ciò è fonte di dolore e sofferenza psicologica, che provoca malinconia, nostalgia e spinge a vivere nel ricordo di cosa abbiamo lasciato invece di aprirci a ciò che abbiamo trovato. Ed è quello che molte volte, di fronte alle difficoltà ci spinge a voler tornare a casa dicendo “non fa per me”, “è troppo faticoso” o “non sopporto il tempo sempre grigio”.
Le nostre radici culturali sono dei “filtri” emotivi e cognitivi con i quali possiamo provare ad aprirci al nuovo, a convivere con una nuova cultura e a prendere da questa quello che sentiamo possa migliorarci.
Questo concetto viene esplicitato dalle parole di alcune persone, che vivono a Londra da diversi anni, che hanno condiviso con me le sensazioni vissute nei confronti del paese d’origine: “quando sei qui, ti manca il sole, il cibo di casa e il calore umano…però quando torni a casa ti rendi conto del perché sei partito…la burocrazia che non funziona, le file ovunque, i ritardi sugli stipendi quando hai la fortuna di lavorare…”. Quest’apertura al nuovo porta con sé un arricchimento personale e allo stesso tempo una sensazione “di sentirsi in bilico”, di sentirsi a cavallo fra due culture che non sempre è di facile gestione.
Mi piace pensare che nel momento in cui abbiamo deciso di partire, abbiamo intrapreso un viaggio anche con noi stessi, la ricerca di un equilibrio fra ciò che ci appartiene e ciò che vogliamo far diventare nostro della nuova realtà in cui viviamo.
E come in ogni viaggio che si rispetti, siamo noi che decidiamo come e quando arrivare alla meta,
gioire del percorso fatto e dell’averla raggiunta.
Io sono ancora in viaggio….
Daniela Fanelli
Londra, Regno Unito
Marzo 2013