Home > Africa > Ciad > Un italiano in Ciad: la storia d’espatrio di Sandro
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Sandro è italiano e attualmente vive in Ciad, ma ha trascorso lunghi periodi in vari paesi d’Africa. In questa stimolante intervista raccolta da Claudiaexpat, intreccia la sua interessante storia personale con informazioni sul Ciad, un paese di cui si conosce veramente poco. Grazie, Sandro !!!

 

Cosa ti ha portato in Ciad ?

Nel 1986, finita l’università (a Padova, con laurea in scienze agrarie) inizio il servizio civile in un comune della bassa bresciana. Lì mi mettono a gestire una biblioteca e tra le varie letture mi sono appassionato al Rapporto Brandt, che sottolineava la necessità di cooperare con i PVS (Paesi in Via di Sviluppo, n.d.r.). Da lì, insieme al fatto che non mi vedevo in Italia a fare il rappresentante di qualche grossa ditta mangimistica, mi è venuta la voglia di partire come volontario. Ho contattato varie Ong. Ho anche rischiato di partire per l’Equador con COOPI, ma alla fine sono finito in Ciad con ACRA.

Sono stato in Ciad dal 1988 al 1992, poi mi sono sposato, mi sono trasferito in Cameroun, dal ‘92 al ‘94, da lì in Senegal da fine ’94 al ‘99 e poi di nuovo in Ciad. Nel frattempo sono nati Valentina (in Cameroun) e José Dandé (in Sénégal) che hanno raggiunto Diana (nata da una precedente relazione in Italia, dove vive, sposata e madre di tre bambini) e Liliane (figlia di mia moglie che ho adottato, nata in Ciad e che adesso vive a Londra).

Ti sei sposato con una ciadiana, quindi hai un rapporto ancora più profondo con l’Africa… vorrei che provassi a dirmi come ti senti rispetto al continente, alla tua esperienza, a quello che l’Africa ti ha dato, in bene e in male…

Alti e bassi, come puoi immaginare. Il matrimonio con Marie-Ange mi ha aperto varie porte, la possibilità di conoscere, di capire l’Africa nel profondo, meglio dire il Ciad, perché quando eravamo lontani da qui, anche lei era “straniera”. L’Africa mi ha dato la possibilità/necessità di relativizzare le cose, voglio dire: la grande povertà, le situazioni estreme, ti portano a relativizzare poi le difficoltà che si incontrano nella vita normale (da occidentali).

Un’altra cosa molto forte: il rapporto con la morte. Qui ho sentito la famiglia di Marie-Ange così vicina e attenta al mio dolore (quando è morto mio padre) che sono rimasto quasi incantato. E il rapporto con i figli o i bambini in generale… le persone adulte si relazionano con i figli dei parenti in modo autonomo da questi cioé, ad esempio, se ci sono screzi tra sorelle non per questo i nipoti vengono allontanati in qualche modo. E’ difficile da spiegare, ma i bambini sono un valore in sé. Da noi questo succede molto meno.

italiano in ciad

José e Valentina, i frutti della cooperazione

Un altro valore di cui ho avuto varie conferme, è la solidità psicologica degli africani, in particolare delle donne africane, frutto probabilmente del forte senso di appartenenza al gruppo etnico, ma non solo.

Di molto diverso (e difficile da digerire) vivo la relazione di Marie-Ange con la sua famiglia, che rimane per lei LA FAMIGLIA. Quella che abbiamo costituito io e lei, in fondo in fondo viene dopo.

E come ti senti rispetto a questa cosa?

Cerco di conviveci, di mediare, ma non è facile. Su questa cosa c’è uno scoglio durissimo. Il Ciad poi, in particolare, è un paese dove la famiglia, la tribù, sono ancora molto presenti. Popoli più o meno costretti a mettersi “insieme”, sotto lo stesso ombrello che si chiama Ciad, ma poi in ogni grossa città trovi il quartiere Sarà, il quartiere arabo, il quartiere kotoko… ognuno vive con i suoi simili. Lo scambio, il metissage è poco pronunciato, molto meno che in altri paesi africani più aperti.

Io sono stata in Ciad nell’86, è lì che ho avuto il mio primissimo impatto con l’Africa. Sono stata a Mao e a N’djamena. Ho ricordi molto vaghi… com’è adesso la capitale?
Come ci si vive, cosa si fa? Com’è l’atmosfera?

N’Djamena non è una bella città, è un’evidenza. E’ stata concepita come una fortezza militare (si chiamava Fort Lamy) in una zona acquitrinosa, per cui nella stagione delle piogge, diventa un pantano e in stagione secca è molto polverosa. Strade tappezzate da sacchetti di plastica, poche grosse arterie asfaltate. Non è stata concepita come una capitale, è fatta da grossi villaggi uno di fianco all’altro. Come si vive? Dipende da chi sei e da quello che fai. Da cooperante, io faccio casa ufficio, scuola a recuperare i figli, ancora ufficio… Però viaggio molto, diciamo tre o quattro viaggi al mese fuori N’Djamena. Mia moglie invece ha una piccola fattoria e alleva galline ovaiole ormai da qualche anno appena fuori città, io le dò una mano quando posso, soprattutto nei fine settimana.
Non ci sono tantissimi stranieri, penso meno di mille. Il grosso vive in provincia, religiosi nelle missioni e tecnici al sud, nei campi di petrolio.

Pensi che resterai a lungo in Ciad, o vedi nel tuo futuro un eventuale rientro in Italia?

Professionalmente sono legato all’Africa francofona. Abbiamo appena cominciato con ACRA un progetto di gestione delle risorse forestali e per i prossimi quattro anni lo seguirò io. Penso comunque di passare l’ultimo scorcio di vita in Valle Camonica, valle in cui sono nato e alla quale sono rimasto sempre legato. Diciamo che il mio presente è qui. Fino a che i figli non arrivano alla fine della scuola secondaria credo che non ci muoveremo.

Una delle grandi preoccupazioni di molti genitori che fanno crescere i propri figli in alcune capitali d’Africa è che non socializzino a sufficienza, che non abbiano sufficienti contatti con il “vero mondo”…. che facciano una vita molto protetta, tra casa, scuola, piscine e campi da tennis… cosa ne pensi?

Preoccupazione giustificata, soprattutto delle famiglie straniere. Nel mio caso i miei figli frequentano molto i loro cugini, visto che una parte della la famiglia di Marie-Ange è qui a N’Djamena, quindi poca piscina e zero tennis (non che il tennis sia da buttar via, intendiamoci). Certo, l’idea che i miei figli vadano da soli a zonzo per N’Djamena non mi piace molto, ma ho dovuto farmene una ragione. Penso sia un problema di tutti i genitori… I miei figli crescono con questa dicotomia davanti, i due mondi, dei ricchi e dei poveri, non necessariamente i bianchi e i neri, visto che ci sono anche i compagni di classe di colore con i soldoni. Mi sembra che per ora siano abbastanza equilibrati, cioé che questa schizofrenia non sia causa di grossi problemi.

Penso spesso che l’incontro con l’Africa contribuisca a rendere completa una persona. Cosa ne pensi?

Non necessariamente. Penso a tante persone (anche di un’altra epoca, o altri continenti) che senza incontrare l’Africa vivono o hanno vissuto una vita piena.
Diciamo che, per un occidentale, l’incontro con l’Africa è l’incontro con l’Altro, con la diversità in assoluto. Può essere molto benefico ma anche devastante, comunque estremo. Per molti versi in Africa l’uomo non ha ancora domato la natura, ci si sente piccoli, come è giusto che sia. E più solidali con gli altri.

Sandro
N’Djamena, Ciad
Marzo 2007

Intervista raccolta da Claudiaexpat

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