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Marcella è italiana, e vive a Mitaka, Giappone. Le abbiamo chiesto di raccontarci cosa considera “duro” nel suo espatrio. Il risultato è questo articolo interessantissimo, spontaneo, ricco di informazioni e di utili considerazioni. Grazie Marcella !!! 

 

Come si vive in Giappone? Possiamo parlare di espatrio duro?
Mi è stato chiesto di scrivere la mia esperienza di vita in Giappone e partirò quindi proprio da me,  per evitare di incappare in stereotipi e perchè credo si potranno comprendere meglio i ‘contenuti’ del ‘mio Giappone’.
Frequento il Giappone ormai da 19 anni: la prima volta ho abitato a Kyoto (1991-2), poi nella città di Ibaraki (1996-2000) vicino ad Osaka; nel 2004 è nata mia figlia e da allora ogni estate siamo stati a Nara, dal nonno. Dal 2008 abitiamo a Mitaka, cittadina a 20 minuti di treno dalla stazione più affollata del mondo: Shinjuku (Tokyo). E’ la prima volta che, per quanto in periferia, abito a Tokyo, ed è la prima volta che vivo ‘da madre’ in Giappone.

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Passeggiando in bicicletta la domenica mattina…

Quando venni da studente in Giappone, a Kyoto, non avevo alcuna immagine stereotipata ‘forte’, se non quella di allora, del Giappone ipertecnologico da un lato e ipertradizionale (zen e geisha) dall’altro. La più grande sorpresa fu ritrovarmi circondata da biciclette, in un quartierino (Shugakuin a nord di Kyoto) con un unico piccolo supermercato non più grande di un negozio di alimentari, e una piccola galleria coperta con negozi di piccoli commercianti. Niente di tecnologico se non le insegne. Parlo di quasi venti anni fa e oggi lo stesso quartiere si è solamente arricchito di una libreria, un supermercato ultra moderno e fornitissimo e un grande negozio di prodotti ‘one coin’ (a 100 yen): potenza delle grandi catene commerciali. Per il resto, lo affollano le stesse biciclette con cui costeggiando le rive verdi del fiume Shimogamo, che più a sud si unisce al fiume Takano formando il Fiume  Kamo (Kamogawa). Non è solo geografia: il piacere di vivere a Kyoto, per me, è in gran parte dovuto proprio alle rive di questi fiumi: verdi, pulite, che invitano alla passeggiata, o anche solo ad ‘andare a piedi’ senza essere esposti al traffico; rive dove può capitare di assistere per caso a performance teatrali o strumentali di studenti o di artisti già affermati, così come ad allenamenti di arti marziali.
Detto questo, ho svelato il mio amore per Kyoto, per la facilità con cui si può ‘vivere la città’, a dimensione d’uomo. Data l’affluenza di turisti stranieri, quasi tutto è scritto in inglese, e i residenti, stranieri e non, sono di solito molto disponibili ad aiutare. Fermo qui la testimonianza ‘da studente’, con i problemi comuni a qualsiasi altro ‘studente all’estero’: nostalgia di casa, lingua studiata ma non ancora ‘appresa’, difficoltà nel trovare l’aula delle lezioni ecc ecc ecc.
Un salto nel tempo mi porta invece a un espatrio più ‘espatrio’, quello di oggi, a Mitaka. Più espatrio perché coinvolge non solo me stessa, ma ‘la famiglia’.

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Scampare al caldo torrido di agosto in mezzo al “verde architettonico”

Su Tokyo, i suoi quartieri, i suoi parchi ecc, ci sono in Expatclic già diversi articoli di informazione, quindi non mi soffermerò a presentare la metropoli, ma le ‘difficoltà’ di vita.
Sono arrivata all’aeroporto di Narita solo con Alice, mia figlia: quasi 6 anni oggi, 4 anni allora. Il trasferimento era dovuto al mio lavoro di ricercatrice: avevo ricevuto due anni di fondi di ricerca, ed eravamo ancora in attesa di sapere se mio marito sarebbe riuscito ad ottenere gli stessi fondi. L’università mi avrebbe ospitato una settimana in un dormitorio interno, il tempo per trovare la casa in cui abitare. Ero in contatto con una agenzia immobiliare, specializzata in ‘clienti stranieri’, ma ancora non avevo trovato nulla.
Le prime difficoltà: Tokyo, metropoli, internazionale… chi si sarebbe aspettato di vedersi dire ‘non c’è nulla per lei’ da non una, ma diverse agenzie immobiliari? Dopo un primo tentativo da sola (con mia figlia, che avrebbe iniziato la scuola materna un mese dopo), decisi di avvalermi dell’aiuto del professore di riferimento. Riuscii a visitare diverse case. Quando finalmente trovai quella che pensavo fosse giusta (tramite un’amica giapponese che aveva abitato in Italia e lavorava in un’agenzia immobiliare che operò da intermediaria), mi recai nella relativa agenzia di Mitaka, con il professore, per firmare i documenti… Non era ancora finita: come garante volevano il padre di mio marito (di nazionalità giapponese)! La lotta è stata dura, ma alla fine ho fatto in modo che non venisse coinvolto, che il contratto fosse intestato a me sola, e che come garante ci fosse il mio professore.

Appunto n.1: se la ditta per cui si lavora non ha abitazioni proprie, per affittare casa in Giappone serve un garante, a cui verrà chiesta una specie di dichiarazione dei redditi. A questo si aggiungono di solito due mensilità di caparra (restituibile), una mensilità ‘di ringraziamento’ (a perdere), una mensilità per l’agenzia, e l’affitto del mese corrente. Ultimamente si cerca di annullare le mensilità di caparra e di ringraziamento, il che spesso risulta solo in un affitto maggiorato, che le riassorbe. Per chi non parla giapponese la situazione credo sia più critica, ma ci si può affidare ad agenzie specializzate o ad annunci di siti immobiliari in inglese (che spesso cercano però di affittare appartamenti ‘ad hoc’ per stranieri, di grandi dimensioni e prezzi, non certo ‘comuni’ al giapponese medio e al suo stipendio).

La registrazione in comune e la carta di soggiorno non sono un grande problema: gli impiegati comunali sono gentili e capiscono l’inglese e in quasi tutti i comuni c’è una rete di interpreti volontari a cui ci si può rivolgere gratuitamente. Sempre in comune, e contemporaneamente, vengono svolte anche le pratiche per l’iscrizione alla assicurazione sanitaria.

A seguire, l’iscrizione alla scuola materna. Avevo deciso di fare frequentare ad Alice una scuola giapponese, comunale-statale.
L’iscrizione si fa sempre in comune, e richiede una buona conoscenza del giapponese o un interprete che aiuti a compilare le varie pratiche. Prima di partire avevo ricercato in internet le varie scuole materne del comune: ce n’era anche una all’interno della università, ma era uno yochien (leggi: iocien) solo fino alle 12.30. Escluse le scuole private o internazionali, esistono due tipi di scuole materne: yochien , seguite dal ministero della pubblica istruzione, con programmi didattici veri e propri, che tiene i bimbi di solito fino alle 12.30 circa, e hoikuen (leggi: hoicuen), gestite dal ministero del welfare, SOLO per figli di genitori che lavorano ENTRAMBI, aperte dalle 7.30 alle 19.30, programmi didattici simili ma un po’ più rilassati e giocosi, date le ore (di solito almeno 8) che il bambino si trova nell’istituto. Da ricordare che le scuole iniziano ad APRILE (io ero arrivata in giugno), e non essendo dell’obbligo, se non ci sono posti liberi bisogna ricorrere ad istituzioni private o altre forme di sostegno (gruppi di mamme-scuola-famiglia).

Appunto n.2: dovendo lavorare, lo yochien fino alle 12.30 non era pensabile, ma per fortuna lo hoikuen che avevo visitato (si può, sì, si possono visitare) aveva UN posto libero. Bellissimo, maestre disponibili, giardino, attività fantastiche… la parte DURA è stata proprio la difficoltà linguistica. Alice parlava solo italiano, al di là delle 5 o 6 parole di saluti, ‘cacca’ e ‘pipì’. Le prime due settimane sono state un pianto (suo e mio) semi continuo, ma l’interesse e la preparazione delle maestre (munite di dizionario giapponese-italiano), e il fatto che la scuola comprendesse bambini dai 6 mesi ai 4 anni che giocavano insieme, ha dato la possibilità ad Alice di poter giocare ‘quasi senza parole’ per il periodo che le è stato necessario per imparare a esprimersi: a fine agosto parlava benino, aveva amiche ed era felicissima della sua nuova scuola. La difficoltà? Ogni giorno i genitori e le maestre comunicano tramite un diario personale che va portato a scuola ogni mattina con le informazioni necessarie (ha dormito dalle-alle, ha mangiato a colazione x e y, ha la temperatura corporea di x, viene a prenderla mamma/papà alle h…). Di solito la comunicazione è in giapponese, ma non credo ci siano grossi problemi a scrivere in inglese (tutti lo hanno studiato, richiederà forse maggiore disponibilità, ma non è impossibile).

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ATM delle poste, si possono seguire video di istruzioni in inglese su youtube (Japanese ATM), ma molti hanno la traduzione in inglese incorporata

Fin qui nulla di ‘veramente’ duro.
Quali sono le difficoltà quindi?
Rapporti sul lavoro: non posso parlare che per la mia esperienza di ricercatrice, ottima dal punto di vista remunerativo rispetto ad esempio all’Italia. Per essere coinvolti nelle varie attività ed essere al corrente di quanto accade, la partecipazione o meno alla pausa pranzo (ore 12-13) e alla pausa caffè (ore 15) è d’obbligo, e quindi un minimo di conoscenza della lingua (o perlomeno dell’inglese) è necessaria. A cosa essere attenti? Come in altri luoghi, a non sparlare degli altri, a ringraziare per il tè e soprattutto a non dare per scontato che la propria tazza debba essere lavata dalla segretaria.
Il lato più complesso sta forse nell’esprimere la propria opinione: se come straniero di un paese euro-americano si è spesso esteriormente ‘ammirati’ (situazione che può rivelarsi alquanto pericolosa per il proprio equilibrio psichico!), quando si tratta di parlare di contenuti che contano, per lo stesso motivo, può capitare di non essere presi seriamente in considerazione. Se poi si è ANCHE donne, non c’è molta differenza da quanto purtroppo accade anche in Italia.

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Yogurt e latte… conoscere la lingua non guasta, ma oltre al gusto dell’avventura, all’immaginazione e alla commessa che ci aiuta, c’è sempre livemocha !

Il lavoro degli altri: l’esperienza non è direttamente mia, ma solo indiretta, fatta di chiacchierate con mamme che crescono da sole i propri figli, perché i padri tornano alle 11 di notte quando va bene ed escono alle 5 di mattina per potersi recare in ufficio in orario, quando addirittura non vengono spediti all’estero per anni e anni. La scuola è talmente legata al ciclo produttivo del lavoro, che è socialmente riconosciuto (con aumenti di stipendio, ad esempio) che la moglie rimanga in Giappone (o nella città di residenza) per consentire ai figli di non cambiare istituto scolastico e proseguire quindi la propria carriera, che inizia già con la scelta della scuola materna ‘giusta’. Giusta per essere preparati ad affrontare gli esami di ammissione a una scuola elementare/media/superiore che consenta di accedere a un’ottima università, garanzia, questa, di ottimo lavoro, lavoro per cui si iniziano a fare colloqui sin dal secondo anno di università. Per quanto infatti si sottolinei la crisi attuale del mercato del lavoro, la percentuale dei laureati che sono assunti regolarmente subito dopo la laurea, invece del precedente 100%, si aggira comunque attorno all’80%.

La vita extra-lavoro:
Appunto n.3: Torno sul personale e restringo il campo a Mitaka e alla mia famiglia, con genitori che lavorano entrambi e si spostano solo con mezzi pubblici. Per quanto mi riguarda la parte più dura, che mi fa sentire la lontananza, è il dispendio di energie che richiede la vita extra-lavorativa (!). Incontrarsi con gli amici è una vera impresa, e per una persona ‘socialmente pigra’ come me, richiede sforzi estremi 🙂 Le distanze sono tali che andare a trovare un amico ‘vicino’ può richiedere anche due ore di treno (Venezia-Bologna a/r), e di solito ci si accorda per trovarsi a metà strada (un’oretta andare e una tornare), in un posto neutro (caffetteria, parco se c’è bello), dove è impossibile ‘non consumare’, dove la musica di sottofondo è continua e persistente (anche nei parchi a volte, sì: sembra che il silenzio faccia paura). Accordarsi è l’altro lato difficile: chi ha figli è di solito impegnato in attività semi-scolastiche ogni weekend (impegni non rimandabili pena l’esclusione del figlio dal ‘circolo amicale’), e possono passare anche mesi prima di riuscire a trovare date che combacino per consentire ‘la trasferta’. La scelta della casa diventa quindi fondamentale per un buon equilibrio: visto che comunque al lavoro ci si andrà per forza, meglio optare per una residenza più vicina a parchi o luoghi di incontro e di trasporto, che consentano una vita di relazioni personali appaganti.

 

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Anche se… Recarsi al lavoro in treno può risultare in una vera ulcera, per chi non è abituato alle grandi città. Il percorso è spesso affollato (certo, Tokyo ha la più alta concentrazione di abitanti per metro quadrato), tanto che se capita di prendere un treno nelle ore di punta si viene spiaccicati contro i finestrini o le altre persone, letteralmente spinti dentro al vagone da addetti in guanti bianchi. Ho dovuto saltare diversi treni, nella speranza di poter salire su uno in cui ‘respirare’, ma il rischio di fare troppo tardi a un appuntamento di lavoro, mi ha visto a volte costretta a dover comunque salire su veri e propri tristissimi carri-bestiame.

Tutto questo ha più a che fare con Tokyo, anzi con la vita in periferia quindi, da non confondere con tutto il resto del Giappone, ricco di verde e splendide ‘costiere amalfitane’ da visitare per riprendere fiato.
Forse per via delle distanze, forse per via di una riservatezza maggiore, la casa resta il luogo privato per eccellenza, dove regna spesso il caos e una pulizia non luccicante ma ‘quotidianamente sostenibile’. Essere invitati in casa è un segno di estrema confidenza quindi, di cui sentirsi estremamente onorati.

Appunto n.4: attività extra-scolastiche. La scelta della casa è rilevante, per poter disporre del proprio tempo libero in modo piacevole. E allo stesso modo è rilevante la scelta delle attività da far svolgere al proprio figlio: la dedizione che alcune scuole richiedono può essere totale, al punto da annullare praticamente ogni possibilità di vita extra-filiale-scolare. Un esempio pratico: la prima scuola di danza a cui ho iscritto mia figlia (una sua amica la frequentava, e mi pareva ‘buona cosa’ farle fare un’attività piacevole, oltre alla scuola materna) era gestita da un maestro ‘all’antica’, assai severo (troppo), venerato da tutte le mamme. Il maestro, come era per l’Italia di De Amicis, è visto spesso come un maestro ‘di vita’, da seguire incondizionatamente, e la disciplina è portata allo stremo. Risultato: nessun weekend libero, perché le prove per il saggio erano di sabato e domenica, tensione enorme e relativi tic psicosomatici. Non avendo alcuna intenzione di far diventare mia figlia una ballerina, cambiai scuola: altrettanto buona, ma qui la performance non è più rappresentazione di quanto sia bravo il maestro, quanto piuttosto di come sia piacevole per i bambini muovere il proprio corpo in armonia, e i sorrisi abbondano! Si potrebbe parlare all’infinito di stereotipi maestro-discepolo e via dicendo… ma credo che principalmente non si tratti di differenze ‘culturali’ quanto di differenze ‘personali’.

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Niente schiuma nelle vasche da bagno: il bagno serve per
rilassarsi e riscaldarsi. Ma la “tradizione” si può personalizzare
e cambiare, l’importante è seguirla in casa d’altri: lavarsi
prima di entrare nella vasca, e non far scorrere via l’acqua, in
modo che possa usarla anche la famiglia che ci ospita !

 

Un ultimo appunto, forse il più ‘duro’: la tentazione di voler fare ‘il giapponese perfetto’, di solito individuato come persona attenta agli altri, che non ferisce mai, che sa di cosa c’è bisogno senza che glielo si chieda, organizzata, seria, puntuale, disponibile, mai sgarbata, è forte, soprattutto per chi parla giapponese e cerca di utilizzare il linguaggio onorifico (spesso basato su un’auto denigrazione o una marcata deferenza verso l’interlocutore) ma il costo di tensione psicologica può risultare molto alto… non per il voler essere ‘giapponesi’, ma per il voler essere ‘qualcosa/qualcuno’ che non si è. E questo braccio di ferro è facilmente supportato da espressioni di residenti di nazionalità giapponese che ripetono frasi tipo: ‘sembri proprio giapponese/parli come un giapponese/…’ ritenendole ovviamente apprezzamenti sinceri, quando invece sottolineano una presupposta ‘incolmabile distanza’, facendo spesso sentire il proprio interlocutore uno straniero (ancora più straniero), incanalato secondo la nazionalità prima ancora che secondo la propria personalità.
Ma questa è forse la difficoltà che si incontra in ogni paese di espatrio che ci affascina.

 

Marcella
Mitaka, Giappone
Marzo 2010 

 

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