Home > Uomini Expat > La storia di Nicola, espatriato prima di nascere!
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A 39 anni Nicola ha vissuto in niente meno che 14 paesi in tutti i continenti del mondo. In realtà, era espatriato prima di nascere. Figlio di genitori italiani, nato in Uganda e cresciuto in un turbinio di paesi e situazioni, Nicola ha raccontato a Claudiaexpat la sua straordinaria vita. Tenetevi forte: è un’intervista interessantissima !!

 

Cominciamo dal primo vagito…

Bisognerebbe cominciare anche prima perchè ero espatriato prima nascere 🙂 Sono nato in Uganda due anni dopo che i miei genitori avevano deciso di lasciare l’Italia per lavorare all’estero, una scelta che ha provocato un grande cataclisma all’interno delle famiglie. All’epoca non si rientrava in Italia con la frequenza di oggi, e tantomeno per partorire. Lavorare all’estero significava periodi di anche due anni senza tornare in patria. Sono nato in un ospedale ugandese nel bel mezzo del colpo di stato di Idi Amin. I miei genitori mi raccontano di come erano costretti in casa, con me in braccio, mentre fuori sparavano. Dopo l’Uganda è venuta l’Etiopia, dove siamo rimasti solo quattro mesi, giusto il tempo che nascesse mia sorella, in condizioni ancora più estreme delle mie. Mio padre è stato mandato in Cina, dove non abbiamo potuto accompagnarlo: era il ’72 ed entrare in Cina era estremamente problematico. L’abbiamo raggiunto negli ultimi sei mesi del suo contratto, e poi ci siamo spostati tutti a Hong Kong, dove abbiamo trascorso tre anni. I miei primi ricordi vengono da lì. Ci siamo poi spostati in Australia, per tre anni e mezzo, e poi in Sudafrica per quattro. Prima di tornare in Italia abbiamo vissuto due anni in Arabia Saudita.

espatriato prima di nascereTantissimi cambiamenti dalla nascita ai quindici anni, dunque. Hai sofferto al cambiare così tanti paesi?

Poco. Neanche lasciare il Sudafrica a 13 anni mi è costato, pur essendo questa un’età considerata in genere critica per lasciare ambiente e amici. C’è da dire che la scuola a Johannesburg era piuttosto dura, era una di quelle scuole vecchio stampo, solo maschile, gestita da religiosi, dove si usavano ancora le punizioni corporali. Un ambiente duro nel quale non mi sono mai trovato bene e che non mi è affatto dispiaciuto lasciare. Anche perchè ero arrivato in Sudafrica sfasato di sei mesi rispetto al calendario scolastico, e mi avevano dunque fatto saltare sei mesi di scuola, mettendomi in una classe più avanzata. Una storia scolastica piuttosto travagliata, insomma. L’unica volta in cui ho davvero sofferto è stato quando ci hanno riportati in Italia, ai miei 15 anni, dopo l’Arabia Saudita.

Davvero? Non volevi tornare in Italia?

Assolutamente no. Per me l’Italia era un posto alieno, totalmente sconosciuto. Ci tornavamo di tanto in tanto e stavamo sempre da amici. I miei genitori non avevano una casa loro, avevano venduto il loro appartamento quando erano partiti la prima volta. I contatti con i famigliari erano pochi, sporadici. Li vedevamo molto occasionalmente, giusto se venivano di tanto in tanto in vacanza, ma non erano una presenza costante nelle nostre vite. Quindi l’idea di andare in Italia non aveva niente di attraente, sia io che mia sorella abbiamo protestato tantissimo quando ce l’hanno detto. Tant’è che per convincerci ci hanno promesso che sarebbe stata solo una fase, e che per questo ci avrebbero messo in una scuola inglese e non una italiana. In realtà l’anno nella scuola inglese era solo una tappa per abituarci all’Italia, dove poi siamo restati.

 

espatriato prima di nascere

Nicola e sua sorella in Sudafrica

Com’è la vostra storia linguistica?

In casa abbiamo sempre parlato italiano, ma dato che le scuole che frequentavamo erano inglesi, io e mia sorella parlavamo in inglese tra noi. Quando siamo arrivati in Italia io sapevo leggere in italiano, ma non lo sapevo scrivere. Mia sorella non lo leggeva e non lo scriveva, è per questo che arrivati a Torino abbiamo fatto un anno di adattamento in una scuola americana, che ci ha dato il tempo di metterci in pari linguisticamente parlando. Io entravo in terza liceo e ho dovuto fare un esame di ammissione, portando tutte le materie del biennio. E’ stata piuttosto dura, anche se il fatto di aver sempre letto molto in italiano mi ha aiutato tanto. Alla fine mi sono adattato all’Italia abbastanza bene e rapidamente, anche se appena terminata l’università ho cercato di ripartire. E mia sorella ha fatto lo stesso.

Quindi è vero quello che dicono, che chi cresce in espatrio rimane per sempre espatriato?

Ho conosciuto tantissime persone cresciute all’estero come me, e in genere succedono due cose: o ti resta dentro questo tipo di vita, e continui a viaggiare e spostarti, o ti viene il rifiuto totale e non ti muovi più. Penso che tutto dipenda da come vivi la cosa, dal tipo di famiglia che hai, da quello che ti trasmettono. Io l’ho vissuta bene. Per me la casa era sempre la stessa. Indipendentemente dal paese, mi muovevo con i miei genitori, con mia sorella, il nucleo c’era sempre ed era un forte riferimento. La mia famiglia è sempre stata molto tranquilla, serena, una forte fonte di sicurezza. Quando si vive bene è normale tendere a continuare con questo stesso stile di vita. Le persone cresciute in espatrio alle quali è mancata ad esempio questa stabilità famigliare, hanno moltissimi problemi perchè perdono completamente la bussola. Se neanche la famiglia è stabile, non sai davvero più a cosa aggrapparti. E’ per questo che spesso quando trovano l’occasione di fermarsi non si muovono più.

Torniamo alla tua storia personale. Liceo a Torino, e poi?

Ho fatto ingegneria, sempre a Torino. Dopo l’università ho cominciato a lavorare come consulente al Politecnico di Torino, e poi ho accettato un posto come ingeniere in azienda. L’ho fatto per una serie di ragioni, tra cui una certa tradizione famigliare, ma non era quello che faceva per me. Ho resistito due anni e poi mi sono licenziato, anche se non avevo alternative. Volevo lavorare in cooperazione, era una strada sulla quale si era già lanciata mia sorella e che mi ha ispirato. Strada che poi ho seguito e grazie alla quale adesso sono qui in Perù. Ho lavorato con ong italiane in Eritrea, Congo, Marocco, Territori Occupati Palestinesi e Sri Lanka.

Giusto per non smentirti. Adesso voglio però farti le domande che sono di grande interesse per le mamme espatriate che leggono Expatclic. Ad esempio, come ti senti quando pensi al tuo passato, ai paesi in cui hai vissuto, alle case in cui sei cresciuto e dove non puoi tornare?

Ti rimangono delle esperienze perdute. Quando hai un posto a cui puoi tornare o a cui torni con regolarità e che vedi spesso, quasi non ti accorgi del fatto che le cose cambiano moltissimo. Quando vivi in un paese e poi te ne vai, ti rimangono delle fotografie scattate in determinati istanti. Per te sarà sempre quello. In realtà anche se tu ci tornassi non ritroveresti mai quello che hai vissuto: perchè sei cambiato tu e perchè il posto stesso è cambiato. Hai quindi questi momenti fissi di cui hai un forte ricordo ma che sono persi per sempre. Io ci ho patito per un po’. A volte sentivo questa mancanza di una cosa che si è chiusa irrimediabilmente, alla quale non potrò mai più tornare. Mi è passato, a dire il vero, perchè è molto legato ai miei ricordi di infanzia. Non ho la stessa sensazione verso i paesi in cui ho vissuto e lavorato da adulto, ma pensando alle esperienze da ragazzino sì. E’ come avere davanti a sè una serie di scatole chiuse.

Sei mai tornato in un paese dove hai vissuto da bambino?

Mai. Ci sono alcuni posti in cui mi piacerebbe tornare, ma penso che il rischio di restarci male sia altissimo. Ho ricordi di certi posti che sicuramente troverei molto diversi. Mi piacerebbe andare una volta a Kampala a vedere dove sono nato. Ma lì è un’altra cosa perchè non ho ricordi, quindi non posso restar deluso.

espatriato prima di nascereTirando le somme, cosa puoi dirci di questa vita? Ha le sue ricchezze? Ha dato i suoi frutti?

Io sono contento di essere cresciuto così, mi è piaciuto tantissimo. Infatti sono felicissimo di far fare questa vita a mia figlia. Quando cresci in espatrio a 15 anni hai già visto un sacco di cose, conosciuto una marea di situazioni diverse. Certo, quando sei ragazzino lo vivi giorno per giorno, è quando sei adulto che ne cogli pienamente i vantaggi. Ovviamente ognuno ha le sue reazioni, però ad esempio sia io che mia sorella abbiamo sviluppato un grado di adattabilità incredibile, possiamo andare ovunque senza alcun tipo di scossone. Siamo anche un po’ irrequieti, questo è vero. Si rimane un po’ senza radici. Pur avendo vissuto molti anni in Italia e sentendomi italiano in tutti i sensi, mi rimane pur sempre un buco. Un vuoto culturale. Parlando con gli amici, con le persone che sono cresciute in Italia, mi rendo conto che mi mancano i riferimenti culturali, le situazioni, gli eventi tipici di un’epoca nella quale io non c’ero. Io ho anche avuto un’educazione anglosassone, che è molto diversa da quella italiana. Insomma, posso arrivare a sentirmi diverso a vari livelli, ma non posso dire che questa diversità mi pesi. E’ una cosa peraltro alla quale ci si abitua con questo tipo di vita. Ad esempio sia in Australia che in Sudafrica io ho frequentato scuole locali, dov’ero l’unico che veniva da fuori, tutti gli altri erano studenti nati e cresciuti lì, e quindi in entrambi i casi ho dovuto abituarmi all’essere “diverso”. In Arabia Saudita, dove la scuola era internazionale e tutti gli alunni venivano da esperienze di espatrio, questa diversità non si avvertiva.

Ricordi particolari? Qualcosa di particolarmente bello o di particolarmente duro di uno dei paesi in cui hai vissuto?

Ti dirò che a me è sempre sembrato di fare una vita molto normale. Ero introverso, quindi i primi mesi in un posto nuovo mi costavano, ma questo ha a che fare con il mio carattere, non con il tipo di vita in sè. Ho avuto la fortuna di essere madrelingua, quindi non sono mai stato discriminato. Nel mondo anglosassone se non parli bene inglese la paghi.

La transizione più dura è stata quella dall’Australia al Sudafrica. Passare da una scuola pubblica e normale a Sydney a una scuola privata, di soli maschi, con punizioni corporali, con un programma scolastico radicalmente diverso è stato davvero doloroso.

Hai vissuto in Sudafrica nel periodo più duro dell’Apartheid. Hai ricordi in questo senso?

No, non lo vivi da bambino, non te ne accorgi. Ho vissuto in un mondo a parte. Tieni conto che eravamo lì proprio nel momento in cui ci sono state le proteste studentesche e la repressione di Soweto. Il mio ricordo dell’epoca è che avevo una cassetta dei Pink Floid e miei genitori mi dicevano di non suonarla in giro perchè l’avevano proibita. Another brick in the wall era diventata la canzone di protesta dei ragazzi neri e quindi l’avevano proibita. Queste situazioni le ho viste nei film che ho guardato anni dopo, non certo mentre ci vivevo.


Claudia Landini (Claudiaexpat)
Lima, Perù
Dicembre 2008

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