Giorgio è il marito di Claudiaexpat e gira il mondo da più di vent’anni lavorando in ambito umanitario. Ha vissuto in Mali, Ciad, Sudan, Angola, Guinea-Bissau, Congo, Ex Jugoslavia, Honduras e attualmente in Perù. In questo lungo e profondo articolo riflette sulle luci e le ombre di una vita spesa all’estero. Grazie Giorgio !!!
Un altro aereo. Rigiro tra le mani tessere frequent flyer di linee aeree che non esistono più da tempo. Frammenti di pensieri dispersi tra una cuffia e due chiacchiere con la persona al lato, rubando il privilegio di momenti di solitudine, pensando a come mantenere insieme un’identità in una vita esposta a molti venti.
La vita da espatriato (interessantissima, e che non cambierei mai, mai tornerei indietro) non è tra le più facili: tagliare i ponti con il proprio ambiente, i propri amici, le proprie radici culturali; atterrare in altre culture a volte diversissime, esporsi a personalità, situazioni, pericoli estremi; lanciarsi verso l’inconnu, ricreare relazioni di lavoro e sociali, e tornare a tagliare i ponti, ricominciare da capo, con altre sfide, altri rischi, altre culture.
Condividere tutto ciò con una persona amata diviene più complicato. Le priorità, le scelte, le sofferenze sono affrontate in due, ma il rispetto delle esigenze di due persone spesso non combacia con i tempi e l’assenza di normalità di un mercato del lavoro sregolato come quello in espatrio. Le parole chiave divengono mediazione, adattamento, flessibilità. E gioia di scelte comuni.
E’ luogo comune che la vita di chiunque cambia radicalmente con l’arrivo di figli. Nel caso di un espatriato, si amplifica all’estremo la sensibilità ed il senso di responsabilità e protezione per i propri figli, esposti, non per scelta, ad una vita che “normale” non è. Ma la “carriera” da espatriato diventa la quadratura del cerchio, tra esigenze e tempi di lavoro che non combaciano coi tempi della vita di famiglia, la scuola dei figli, proposte che non si possono rifiutare in tempi e luoghi impossibili per una vita di famiglia.
Sera, luci fioche ed il rumore fortissimo degli scrosci d’acqua sul tetto di lamiera del piccolo ristorante di questa capitale grande come un lenzuolo, sotto il buio cupo dei cieli d’Africa occidentale. Bloccato dalla parete d’acqua, incontro un connazionale. Parliam delle nostre giovanissime famiglie e dei figli appena nati, e gli comunico gioioso quanto sia facile la vita in questo nuovo paese. Mi guarda stupito, non è d’accordo, non mi capisce. Gli spiego che sebbene non ci sia nulla, almeno non c’è guerra come nei tre precedenti paesi in cui ho vissuto anni, e qui c’è perlomeno un piccolo supermercato: mi guarda, ride – la sua missione anteriore, per una impresa privata, era a Bonn.
Nel mio caso, il vivere in diversi paesi è originato dal tipo di lavoro che svolgo per una organizzazione internazionale di aiuti umanitari. L’espatrio nell’ambito della cooperazione internazionale condivide con le altre forme di espatrio tutte le difficoltà, ma le amplifica: le missioni (assignments) sono più corte, e le condizioni estreme di vita e di esposizione a rischi, disastri, conflitti esasperano quelle che sono le costanti dell’espatrio.
Spesso le missioni sono in luoghi remoti in paesi in cima alla lista di quelli più poveri del mondo, a volte in comunità senz’acqua potabile né luce, e sono una selezione formidabile per chi vuole continuare in quest’ambito. Spesso l’equilibrio psicologico viene messo sotto pressione dalle atrocità viste e vissute, dalla familarità con la morte e la miseria, e le contraddizioni del mondo del consumo globale esplodono come un re nudo nella parola che meglio definisce la relazione tra paesi ricchi e poveri: inequità.
Nei 22 anni quasi continui di espatrio a sud del mondo varie persone giovani – più giovani di me – m’han chiesto se è possibile fare una vita normale, con una famiglia, e continuare ad essere espatriato. Quasi sempre prendo un bel po’ d’aria nei polmoni prima di rispondere, e penso alla piroga sul fiume Congo, colonne di fumo e colpi di mortaio alle spalle, colpi d’arma da fuoco tutto intorno, mia moglie ed i miei due figli piccoli seduti sul fondo dello stretto tronco scavato, le cateratte poche centinaia di metri più a valle. E, dopo aver squadrato con occhio clinico l’interlocutrice o interlocutore, rispondo (quasi sempre !) di sì.
Certo, non è facile, e il tasso di separazioni e divorzi in espatrio è più alto che quello medio nei nostri paesi d’origine; certo, lavorando in espatrio a sud del mondo è ancora più difficile perché l’incertezza sul futuro è altissima, e le ferite psicologiche accumulate lasciano profonde cicatrici.
Se ti guardi allo specchio e ti chiedi chi sei e che ci fai qui, se tua moglie si innamora di un altro (o altra), se tuo marito s’innamora di un’altra (o altro), non hai la tua rete di protezione, le tue amiche e i tuoi amici più fidati sono distanti qualche migliaia di chilometri, e molto spesso non hai la possibilità di prenderti tempo o spazio per te stessa/o, spesso perché sei sotto i riflettori, hai una posizione pubblica. Da qualche anno benedetti siano l’e-mail, i chat ed i telefoni voip, che accorciano le distanze (ma perché gli italiani non leggono mai le loro e-mail ?).
The virtual tour. Si avvicina la data di fine contratto, o di fine assignment. Via telefono, o mail, arriva la prima proposta sul prossimo paese – e di colpo proietto la famiglia nel paese asiatico. Ci sarà la scuola francese ? E’ un paese sicuro ? La città ha una vita culturale ? Le donne possono vivere normalmente ? Le relazioni sociali sono aperte, tollerate ? Ma riusciremo a comunicare con una delle 6 lingue che conosciamo ? Ne parlo con lui/lei, e via a cercare informazioni con le reti di amici (by the way, avete mai provato Expactclic.com ?…). Lunghe chiacchierate, e quando abbiam quasi deciso hop, arriva un’altra mail. Altro continente, altre condizioni, altro paese, altra cultura, altra lingua – e le stesse domande. E quando pensi di aver preso la decisione, ti dicono che ora quella posizione è “già coperta”. E via, si ricomincia.
Lo leggi sull volto dei tuoi amici che stanno terminando una missione, un assignment. E quando ti dicono sì, ora è deciso, leggi sulla loro faccia le lunghe ore passate a parlare tra loro e coi figli dei prossimi posti, e leggi una esausta gioia di aver finito la ricerca e sapere dove getteranno l’ancora. Per qualche tempo almeno…
Un rischio della vita dell’espatriato è di vivere le ‘missioni’ (i periodi di lavoro all’estero) come una specie di parentesi, più o meno avventurosa o gratificante, della tua vita. Nulla di più rischioso. La tua vita è oggi, radicata nel tuo ieri e proiettata nel domani; e sebbene il tuo oggi da espatriato sia radicalmente diverso dal tuo ieri, ed il tuo domani stia nelle mani dell’oracolo di Delfi, è il tuo oggi, qui, che definisce e scandisce il tuo essere vivo.
Oggi, nel mondo della comunicazione totale e delle sue contraddizioni, la figura dell’espatriato è una figura di precursore della mobilità estrema e dei mercati globali. Sempre più contratti a tempo, sempre più pressione sul lavoro, sempre più incertezza e flessibilità, sempre più necessità della capacità di analizzare la complessità, e prendere veloci decisioni (sul lavoro, nella vita) sulla base di una lettura rapida dei segni della situazione.
Dicono che le cose che più generano stress nella vita di una persona sono, nell’ordine, un lutto, il divorzio ed un trasloco. Nei 22 anni passati ho messo sù casa 15 volte, in 10 paesi differenti, ed ogni volta è stato un rinascere, una reincarnazione. Amo cambiare, adoro scoprire un paese nuovo, conoscere gente nuova, imparare con umiltà i mille segni della cultura di un popolo nuovo e delle sue idiosincrasie, ricominciare a relazionarmi e prendere le misure in un ambiente sconosciuto.
Casa, dolce casa. Ultimamente mi è capitato di chiedere a tanti amici espatriati dov’è, per loro, “casa”, nel senso britannico di home. Le risposte sono tra le più svariate, anche se sembra esserci una regola di base che separa le coppie di una stessa nazionalità da quelle miste. Tra queste ultime, sono parecchie le coppie che visitano un paese d’origine un anno, e l’altro l’anno seguente; ma quelle con figli in età di studi universitari sparsi in diversi paesi le cose si complicano. E’ per questo che per molti espatriati l’idea del “ritorno a casa” assume un valore assai relativo; ma per coloro che lo pianificano, come la fine di una fase della loro vita, spesso going home risulta assai traumatico, fino a non riuscire a reinserirsi in una vita “normale”. Chissà, forse perché non esistono ritorni al punto di partenza (che non rimane statico), e non prendere in considerazione i cambi generati dall’espatrio è un rischio assai elevato. Spesso il sentimento è di estraneità, I don’t fit here anymore. Spesso si legge l’incongruenza di sistemi e linguaggi conosciuti, lasciati alle spalle, e ritrovati simili a se stessi.
All’altro lato del ventaglio stanno gli espatriati che non tornano mai, nemmeno in vacanza, al paese d’origine, e che negano parte del passato, novelli emigranti nomadi e raminghi nel mondo, apolidi privilegiati. Infine, esiste una categoria particolare di espatriati che ricostruiscono, altrove, le stesse dinamiche che avevano in precedenza, con puntigliosa dedicazione.
Espatriati per scelta, espatriati per forza. Questi ultimi si chiamano figli, che non scelgono, bontà loro, di esserlo – ci si trovano, semplicemente, come condizione di vita. E quante domande, quanti dubbi – gli stessi di tutti i genitori, solo ampliati in alcuni aspetti non trascurabili. Come sarà l’equilibrio psicologico, la capacità di relazionamento sociale, di queste pargolette e pargoletti che cambiano ambiente ed amici ogni 2, 3, 4 anni ? Come sarà la loro relazione con concetti e set di valori, che i loro coetanei succhiano ancora nell’ambiente stabile circostante ? Che cultura penseranno propria ? Saranno girovaghi incapaci di adattarsi ad un posto solo, o al contrario vorranno radicarsi perché non l’han mai fatto da piccoli ? Quanto influirà sulla loro personalità l’aver interrotto le relazioni d’amicizia, aver avuto migliori amici spezzettati e a singhiozzo ? Quanto sarà utile l’essere passati attraverso una serie di traumi ed adattamenti ? Che visione potranno avere del mondo, dopo averlo vissuto come un ambiente unico e dinamico, se un dì metteranno radici in qualche sua parte ?
E’ meraviglioso vedere i miei figli crescere saggi, aperti, permeabili, con una capacità di adattamento e di lettura dell’esistente ad un livello ben differente dai loro coetanei. Vero, pagano lo scotto di non riconoscere i mille riferimenti non detti di una cultura, ma spaziano con agilità e libertà d’opinione su varie culture, con un’apertura di spirito ed una disponibilità al conoscere che invidio loro molto.
Ancora una volta richiudo il cassetto cerebrale nel quale stanno numeri di telefono, volti, luoghi legati alla mia città di origine. Questo sentimento sottile e contradditorio, molto dostojewskiano, di sentirsi straniero nel proprio paese si concretizza quando cerco, testardo, di infilare il nuovo biglietto magnetico del metrò nella vecchia macchina obliteratrice. Non ho difficoltà a capire come funziona il metrò di New York o di Seul, ma non son capace di leggere le istruzioni del metro di Milano. Caspita, come si permettono ? Il sorriso d’autoironia stampato sulla faccia si confonde con le mille facce e colori che popolano quella città conosciuta e sconosciuta, e me lo porto con me nelle tappe del ritorno a Lima, confuso coi mille sorrisi di paure e voglie di conoscere del nostro villaggetto globale.
Siete bellissimi, nei vostri occhi si vede chiaramente l’amore che vi unisce. Con una vita così nomade e con due figli siete riusciti a prendere il meglio che la vita vi ha offerto. L’articolo di Giorgio mi è piaciuto moltissimo. Siete splendidi.
Grazie di cuore, Cris, per le tue belle parole.