Home > Sudamerica > Perù > Volontaria in Perù, intervista alla canadese Lucie

Lucie, 53 anni, del Quebec, ha lasciato il suo paese e il suo lavoro per diventare volontaria in Perù. Da due anni lavora in una casa di accoglienza (che nell’intervista chiamiamo “rifugio”) per bambini abbandonati o con famiglie che non possono prendersene cura. In questa appassionata intervista, ci parla della sua scelta e ci racconta la sua eccezionale esperienza. Abbiamo preferito lasciare l’intervista sotto forma di racconto. Ringraziamo Lucie per il suo entusiasmo, e le auguriamo di poter restare in Perù ancora per molto, molto tempo…

La scelta, gli inizi e la vita nel rifugio

Venni in Perù per la prima volta 33 anni fa, a trovare uno zio che ai tempi era missionario in una zona remota del paese. Dopo quella visita, decisi che sarei tornata a lavorare come volontaria nel suo progetto, ma lo zio si innamorò di una suora che lavorava con lui, e tornò in Quebec per sposarsi.

Naturalmente non fu più accettato dalla sua comunità religiosa, e io dovetti abbandonare la mia idea di trasferirmi in Perù. Gli anni passarono, ma il desiderio di trascorrere un periodo come volontaria in Perù mi rimase dentro.

Qualche tempo fa una mia cognata, una optometrista che lavora per una Ong che manda gente un po’ ovunque nel mondo ad aiutare in campo sanitario, mi propose di contattare un canadese che vive in Perù da cinquant’anni, e che conosce numerose istituzioni bisognose di volontari.

Il 6 novembre 2002 gli inviai un messaggio parlandogli delle mie intenzioni, e il 29 dicembre varcavo le porte del rifugio per ragazzi! Avevo con me due valigie e non parlavo una parola di spagnolo. Ero la sola donna in tutto il rifugio (che accoglie solo bambini di sesso maschile), straniera, e senza una formazione precisa in campo umanitario. In Quebec lavoravo nel marketing.

I primi due o tre mesi li trascorsi ambientandomi e cercando di capire come avrei potuto contribuire. Non mi ci volle molto per rendermi conto che la prima cosa di cui il posto aveva bisogno erano fondi per continuare a esistere e per mantenere i ragazzi che ospitava.

Cominciai dunque a parlare con gli amici in Quebec, con l’ambasciata canadese a Lima, e con le varie associazioni di donne canadesi. Questo mi permise di entrare in contatto con persone in gamba, di ampliare il mio giro di amicizie, e di comunicare con persone anche al di fuori del rifugio.

Ho trascorso un anno al rifugio, prima di trasferirmi in una casa privata a Lima. L’ho fatto sostanzialmente per due motivi: l’alimentazione e la situazione igienica. Naturalmente vivendo al rifugio condividevo i pasti con i ragazzi. Dopo un anno quasi esclusivamente a riso e patate, mi sono resa conto che stavo cominciando a perdere colpi. Perdevo la memoria, e non riuscivo più a concentrarmi sulle cose.

volontaria in perù

Anche le condizioni igieniche non erano certo il massimo: pulci, pidocchi, polvere. Io dividevo le doccie e i bagni con tutti i ragazzi. Ad agosto inoltre han tagliato l’elettricità, perchè non avevamo soldi per pagare le bollette: abbiamo fatto tutto l’inverno senza luce. Ho letto tutto Harry Potter a lume di candela! In breve, mi sono resa conto che se volevo continuare ad aiutare, dovevo trovarmi un alloggio migliore.

Qualche considerazione sull’esperienza di volontaria in Perù

E’ passato più di un anno da quando sono arrivata al rifugio, e non posso più permettermi di restare in Perù se non trovo un lavoro per pagarmi perlomeno le spese personali. Ho già speso 25,000 dollari, di cui 10,000 per il rifugio. Mi dispiacerebbe tantissimo andarmene adesso. Mi ripeto sempre che a me non costa niente dedicare qualche anno della mia vita a questi ragazzi, mentre per loro la mia presenza può davvero fare una grande differenza.

Questa esperienza mi ha insegnato tanto, tantissimo. E’ incredibile arrivare a conoscere così a fondo “l’altro” mondo, un mondo in cui bisogna lottare quotidianamente con la pura sopravvivenza. Questi ragazzi non hanno niente, niente. Abbandonati dalle famiglie, arrivano al rifugio in condizioni disastrose. Non hanno vestiti, hanno fame. La gente che vive in condizioni agiate non si rende conto dei propri privilegi. Non si rende conto di quanto la ricchezza sia ingiustamente distribuita. Quello che la gente spende in questo bar (l’intervista ha avuto luogo in un bar, n.d.r.) in una mattina, sarebbe di grandissima utilità per comprare cibo per i ragazzi, vestiti, materiale scolastico. E la gente non vuole saperlo. L’anno scorso abbiamo lasciato una scatola in un ristorante molto frequentato, per raccogliere fondi per il rifugio. La scatola diceva esattamente per chi si raccoglievano i fondi, e a quale scopo. Dopo un anno l’abbiamo ripresa e aperta: la donazione totale ammontava a 53 soles (13 euro)!!!!

La storia del rifugio e la lotta quotidiana

Il rifugio fu fondato il 6 gennaio di quarant’anni fa da Luis Gastelumendi, peruviano. Ai tempi Luis lavorava per una comunità religiosa, alla quale chiese finanziamenti per mettere in piedi un rifugio per tutti i ragazzi abbandonati coi quali entrava in contatto. Di fronte al rifiuto della comunità, Luis la lasciò, e fondò da solo il suo rifugio.

Luis è cattolico, ma non ossessivo, è molto liberale. Dalla sua fondazione, il rifugio ha visto passare 4,000 bambini. Tutti poverissimi, tutti con indicibili problemi psicologici derivanti dalle tragiche situazioni famigliari dalle quali provengono. Le famiglie portano i loro bambini anche dalla selva. In generale sono famiglie che non possono provvedere al mantenimento dei figli.

Alcuni ragazzi restano nel rifugio per un periodo determinato di tempo, altri entrano da piccolissimi e ci restano fino ai 18 anni. In generale incoraggiamo il contatto con le famiglie, quindi la domenica i ragazzi che possono tornano a casa. Alcuni non hanno famiglie che li accolgono e restano al rifugio. Il giorno di Natale e il primo dell’anno ci sono sempre circa 25/30 bambini che restano.

Il rifugio è completamente gratuito. Anche l’ordine dei Cappuccini ha un rifugio proprio di fianco al nostro, ma loro fanno pagare. Noi diamo ai bambini vitto, alloggio, vestiti e li mandiamo alla scuola pubblica. Non diamo una formazione professionale ai ragazzi, ci limitiamo a fornir loro un ambiente caldo e famigliare, e trasmettiamo loro i nostri valori (non necessariamente valori religiosi: ciò che cerchiamo sostanzialmente di trasmettere è il rispetto). I ragazzi partecipano alla vita del rifugio, puliscono, curano gli animali…

Attualmente il rifugio ospita 120 ragazzi più 10 tutori. L’unico finanziatore costante in questo momento è l’Emaus, che vende oggetti usati e distribuisce i fondi raccolti tra varie istituzioni. A noi danno 500 soles al giorno (125 euro) che devono servire per tutto: tre pasti al giorno, vestiti, energia elettrica, acqua, forniture scolastiche, forniture igieniche… Non bastano neanche per cominciare, e infatti i ragazzi hanno sempre fame. A colazione mangiano una tazza di avena con un panino, a pranzo riso e patate, e di sera un’altra tazza di avena. Non mangiano verdura, non mangiano frutta. Abbiamo dieci maiali, ogni tanto ne facciamo fuori uno, ed è una festa.

Abbiamo anche messo in piedi un progetto di allevamento di porcellini d’india (in Perù il porcellino d’India si mangia, n.d.r.). Ogni tanto trovo qualche finanziamento più consistente, quest’anno ad esempio abbiamo ricevuto 3,000 dollari da Ayuda con Amor, l’associazione formata dalle mogli degli ambasciatori in Perù, e ho potuto aggiungere due bagni, ridipingere le pareti dei dormitori, e comprare del tessuto per fare lenzuola e federe. Ma in generale la situazione è tragica, questi ragazzi non hanno proprio nulla, ed è una vera pena vederli andare a scuola affamati.

Un giorno vedo arrivare un ragazzino che mangiava qualcosa di bianco. Lo chiamo e gli chiedo cosa sta mangiando. All’inizio ha tentato di nasconderlo, poi mi ha mostrato un pezzo di sale che diamo ai cavalli: l’aveva preso dalle stalle, tutto sporco, e se lo succhiava per calmare la fame…è realmente tragico il sentimento di impotenza di fronte a certe cose.

I ragazzi sono una fonte indicibile di gioia. Quando arrivo al rifugio, mi saltano addosso e gridano il mio nome, mi abbracciano. Per me loro sono la vera molla, la vera motivazione. Adoro i miei ragazzi. Non trovo neanche le parole per esprimere quello che provo quando mi circondano e li posso abbracciare. Spero solo di poter trovare un lavoro che mi permetta di prolungare il mio soggiorno in Perù. Non è semplice perchè dovrebbe essere un lavoro part-time, la ricerca dei fondi per il rifugio prende moltissimo tempo. Ma mi dispiacerebbe enormemente dover lasciare tutto questo adesso.

Il rifugio dove lavora Lucie si chiama Hogar Santa Maria de Niños, ed è a San Juan de Miraflores, Lima.
Se lo desiderate, potete contattare Lucie.
Intervista, redazione e traduzione a cura di Claudia Landini (Claudiaexpat)
Lima, Perù
Dicembre 2004

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