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Ursula è italiana e vive a Bucarest, in Romania. L’abbiamo conosciuta quando ha partecipato al primo concorso fotografico di Expatclic. Attenta osservatrice della realtà che la circonda, realtà che ama raccontare con i suoi bellissimi scatti, in questo articolo intimo e coinvolgente ci racconta la sua Bucarest. Grazie Ursula!!!

Quando chiudo gli occhi e penso alla mia casa di Bucarest sento il gallo che canta, le cinciarelle cinguettare, il picchio battere il suo becco su un tronco di un albero del giardino, i cani abbaiare in lontananza.

Ho sempre sognato di vivere in campagna stando in città e in un autunno di dodici anni fa ho realizzato il mio sogno.
Eravamo appena tornati, mio marito ed io, da una vacanza negli Stati Uniti. Dopo New York, Las Vegas, il mid west, Denver e Chicago, a Milano ci avevano proposto di trasferirci in Romania. Era da tempo che avevamo chiesto all’azienda dove lavorava Enrico un assignement all’estero e ora ci accontentavano.
Avevamo immaginato paesi lontani,  sconosciuti, totalmente diversi dal nostro, invece ce ne proponevano uno relativamente vicino e europeo, con un difetto: era uscito da soli sette anni dal famigerato “blocco comunista”. Quindi era un paese sconosciuto a noi “occidentali” di cui si immaginava solo la povertà, il grigiore, la paura.
Devo dire che personalmente non avevo pregiudizi. I miei nonni erano Albanesi, una bisnonna Italo-Slovena, l’altra Greco-Polacca, quindi l’Est Europa è nel mio sangue e sin dall’infanzia ho vissuto a stretto contatto con la realtà di quei paesi.
Prima di dare la risposta definitiva all’azienda avevamo chiesto di poter visitare Bucarest per farci un’idea. Così ai primi di novembre del 1997 atterrammo in Romania. E fu amore a prima vista!

romaniaLa città era senza traffico, piena di verde, ricca di  laghi, e  la campagna arrivava a pochi chilometri dal centro, pur essendo una città di due milioni di abitanti.
Sì, certo, c’erano i bloc, gli orribili palazzoni di cemento tipici del regime e uguali da Mosca a Sofia, ma dietro di loro, chiusi come quinte di un teatro, si nascondeva una distesa di case basse, con orti, vigne e alberi da frutta. Case semplici con le staccionate di legno, o maestose dimore di una ricca borghesia scomparsa e di una nobiltà fuggita prima che fosse troppo tardi.
Non c’è stata esitazione, dopo le praterie americane, dove le cittadine tutte uguali riportavano con orgoglio la data di fondazione (1984, 1987…!!!), Bucarest, capitale europea, sarebbe stata la nostra nuova casa.
Il cambiamento di vita poi non ci privava di niente che Milano potesse ancora darci. Aspettavamo la nostra prima figlia e tutto sarebbe cambiato comunque.
Gli aperitivi con gli amici, le notti lunghe fino all’alba, i week end improvvisati stavano per diventare un ricordo! Era il momento giusto per partire e cominciare una nuova avventura.
A Bucarest il tempo sembrava essersi fermato ai nostri anni ’50.

 

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Il sorpasso…

Gente vestita in maniera molto semplice, automobili che evocavano gli anni duri del comunismo: Dacia, Trabant, Lada, tutte sgangherate e ferme ogni due per tre ai lati delle strade col cofano alzato e i proprietari chini sul motore, carri trainati da cavalli.
Su un prato vicino a casa nostra spesso si accampavano gli “zingari”, accampamenti simili a quelli dei pionieri dei film western, carri, cavalli, cani e galline, il fuoco acceso e tanti bambini.
I negozi erano ancora vuoti, come ai tempi del razionamento alimentare imposto da Ceausescu, la gente così abituata a fare le code manteneva l’abitudine anche se già due catene di supermercati offrivano tutto dalla Nutella alla pasta Barilla.

I mercati invece erano uno spettacolo: solo frutta e verdura di stagione, direttamente portata dalle campagne. Così in inverno si trovavano unicamente mele, patate, rape, rapanelli, barbabietole e la lattuga, che poi spariva d’estate.
Il massimo era da giugno a settembre quando una alla volta comparivano fragole, ciliegie, albicocche, pesche, lamponi, susine, mirtilli e uva con sapori così veri che i nostri palati hanno dimenticato da tempo.
La nostra casa, poi, non poteva essere più bella: una vecchia villa dei primi del ‘900, Villa Julienne, coi pavimenti in legno, i soffitti alti, le porte coi vetri a quadretti, vecchie stufe di maiolica in tutte le camere. Tutto intorno un grande giardino con alberi da frutta e un prato.
Finalmente potevo affacciarmi alla finestra e vedere il verde invece del grigio di Milano. Potevo avere un piccolo orto con radicchio di Trieste e rucola e piantare, come tutti dovrebbero fare almeno una volta nella vita, un albero: un ciliegio, che ora ha 11 anni (come mia figlia) e ogni estate dà chili di ciliegie da far venire il mal di pancia!
Al posto di un cane o di un gatto avevamo comprato tre anatre: Qui, Quo e Qua.
romaniaI primi tempi non avevo la macchina e giravo nel quartiere, poi quando ho comprato una piccola Tico ho cominciato a esplorare la città armata di macchina fotografica.
Scattavo con spirito documentaristico, volevo immortalare le bellezze e le bruttezze di Bucarest, le prime per timore che prima o poi scomparissero, le seconde perché anche nel brutto sta il bello. In dieci anni ho raccolto un archivio con più di 600 scatti.
Forte della mia targa romena non avevo paura di avventurarmi anche nei quartieri più degradati, a infilarmi tra le misere case degli “zingari”; l’unica cosa a cui dovevo stare attenta era rispettare le strisce pedonali (che in Romania sono sacre) e a evitare le buche nelle strade, buche improvvise che obbligavano a sterzate a rischio di incidente.
Così ho scoperto Bucarest.
Ho scoperto che era una città che nasconde le sue bellezze, e in questo forse assomiglia a Milano, che alla prima impressione raramente piace.

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Ciò che mi affascinava di più era di trovarmi in una capitale europea degna del nome, ma con un forte legame con l’oriente.
Sopravvivevano tradizioni antiche come l’ospitalità a cuore aperto e l’usanza di togliersi le scarpe appena entrati in casa, la musica con melodie gitane. E nonostante fosse una metropoli nessuno buttava via niente, perché poteva sempre tornare utile e essere riciclato.
Il cibo veniva ancora conservato in salamoia o sotto sale, tutte le famiglie mettevano verze, cetrioli, peperoni e altre verdure in grandi bidoni per essere consumate durante l’inverno, quando la natura smette di produrre.
Una città che stava diventando velocemente moderna, con palazzi di vetro e Mc Donald’s (!) e che nello stesso tempo aveva molte case col pozzo dell’acqua e senza servizi igienici, il gabinetto era un “gabbiotto” di legno in fondo al cortile.
Passato e presente.
Quando tagliavamo l’erba del prato mettevamo il sacco fuori dalla porta e gli “zingari”, che viaggiavano ancora coi carri trainati da cavalli in città, se lo portavano via. Dà molta soddisfazione sapere che ciò che non serve più può essere utilizzato da un altro.
Ogni volta che avevamo una vacanza breve partivamo alla scoperta del paese.
Abbiamo visitato quasi tutta la Romania e grazie anche ad amici romeni siamo stati in posti che un turista vede raramente.
La lingua non è mai stata un problema. Per certe parole è uguale all’Italiano, per altre neanche la fantasia può essere di aiuto.
Se arrivederci si dice “la revedere”, rumore invece si dice “zgomot”!
Mi sono sempre domandata come dovesse essere imparare una nuova lingua senza studiarla a scuola e ho scoperto che piano piano ci si ritrova a saperla parlare.
Mio marito in ufficio usava l’inglese, io non avevo scampo e tra fare la spesa e parlare con la gente per strada, ho imparato più in fretta tanto che, in più di un’occasione, ci prendevano per “moglie Romena e marito Italiano”. Un clichè che cominciava a prendere piede (!). Che tristezza vedere in aeroporto ragazze romene sbracciarsi davanti a uomini italiani di mezza età, con mogli e figli in patria.
Uno dei primi ricordi che ho è di quando, a un mercato, ho acquistato dell’insalata. Dodici anni fa la gente andava a fare la spesa con la sporta, come un tempo, i negozianti non avevano i sacchetti di plastica, che venivano venduti in banchi “specializzati”; io non lo sapevo e mi sono ritrovata con una lattuga gocciolante e sporca di terra  in mano! La stessa cosa è successa per le uova.

romaniaAbbiamo vissuto a Bucarest tre anni, fino alla fine del 2000. Poi siamo ritornati a Milano.
La Romania mi era rimasta nel cuore e per tre estati ci sono tornata in vacanza.
Tornavo con mia figlia, a luglio. Stavamo una settimana in città e poi ci trasferivamo in campagna. Non potevo privare Matilde della gioia di correre a piedi scalzi, di guadare fiumi su un carro trainato da cavalli, di fare il bagno nella tinozza, di arrampicarsi sugli alberi e bere il latte appena munto.
Oggi siamo di nuovo qui, dal 2006, a tempo indeterminato.
Molte cose sono cambiate, non sempre in meglio.
Il costo di un progresso troppo rapido è visibile un po’ ovunque: case d’epoca demolite per far spazio a nuove costruzioni dall’architettura stravagante, quartieri di abitazioni a un piano devastati da grattacieli, boschi e giardini che soccombono al cemento.
Secondo un articolo del  National Geographic Romania (ottobre 2006) il verde in città che nel 1989 era di 3.471 ettari è sceso a 2.325 nel 2005. Le previsioni sono che diminuisca ancora, in dieci anni ne spariranno qualcosa come 14 milioni di metri quadrati.
Come spesso accade molti, soprattutto gli anziani, rimpiangono i tempi che furono.
Noi siamo tornati e siamo contenti. La Romania è un bel paese e abbiamo molti amici.
E il caso a voluto che ritrovassimo anche la nostra vecchia casa e il ciliegio.

 

Ursula
Bucarest, Romania
Marzo 2009

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