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luca bonacini

Claudiaexpat ha intervistato nuovamente Luca Bonacini, fotografo espatriato e al seguito di sua moglie, questa volta su temi più inerenti alla sua situazione di uomo accompagnante. Grazie Luca, per la fiducia, e per l’apertura!

 

Caro Luca, è con grande piacere che ti ospitiamo nuovamente su Expatclic! A differenza della bella chiacchierata della volta scorsa, questa volta, come sai, vogliamo concentrare la nostra attenzione sugli uomini accompagnanti, cioè su quegli uomini che seguono le loro mogli che lavorano all’estero, lasciando magari un lavoro alle spalle, o alternando periodi lavorativi ad altri di libertà professionale, o ancora inventandosi qualcosa da trasportare in giro per il mondo. Tu sei un degno rappresentante del gruppo in esame – da anni segui Florence in giro per il mondo, e anzi, è proprio grazie a Florence e al suo lavoro fisso in seno all’Unicef, che hai potuto lasciare il tuo vecchio lavoro per dedicarti a tempo pieno alla tua passione, la fotografia, passione che hai trasformato in professione. La strada però non è stata tutta in discesa… ci puoi raccontare quali sono stati e quali sono (se ce ne sono) gli ostacoli al fare della fotografia la tua carriera regolarmente retribuita?

No, la strada non è stata certamente in discesa. Infatti, all’entusiasmo iniziale di realizzare una passione sono subentrati a poco a poco ostacoli inerenti alla situazione personale e alla professione. Il primo freno è stato quello di consolidare una certa professionalità in un ambito professionale non esattamente stimolantissimo per la fotografia. Non mi trovavo a Parigi, Londra o New York ma semplicemente a Brasilia, dove opportunità di formazione e stimoli culturali scarseggiano, almeno in campo fotografico.
Comunque, a me andava benissimo così. E così l’entusiasmo degli inizi e i primi lavoretti fatti grazie a del “volontariato fotografico” e qualche “assignment” pagato, mi permettono di crearmi una discreta esperienza professionale e di farmi coraggio nella giungla del mestiere.

In ogni caso anche gli ostacoli possono essere visti come delle opportunità. Magari quando si crea il giusto mix di voglia, competenza e l’incontro con persone giuste. Mi riferisco, in particolare, al corso di fotografia online che ho lanciato assieme a Expatclic, frutto fra l’altro di un tuo preziosissimo suggerimento e della mia curiosità. Ecco, si può dire che con questo corso abbiamo cercato di ovviare alla mancanza di “offerta” formativa, di cui soffrivo agli inizi e di cui accennavo poc’anzi.
Il corso online permette di trasmettere passione e conoscenza e mi consente di realizzare l’attività ovunque. Certo, il corso non ha l’ambizione di formare veri e propri professionisti ma mira a migliorare tecnica e estetica fotografica di fotografi alle prime (o seconde) armi, in modo divertente e interattivo.

Il fatto di cambiare paese di tanto in tanto influisce sulla tua situazione lavorativa?

luca bonacini

Pisco, Peru

Ovviamente il cambiare paese influisce abbastanza sulla mia situazione lavorativa. Siccome, infatti, non ho mai abitato in una delle mecche della fotografia, mi devo “accontentare” del mercato locale. E’ un’altra storia se hai sempre vissuto e iniziato a lavorare come fotografo a Parigi e poi ti espatri. In quel caso è più facile che le testate con le quali hai già lavorato continuino a farti fiducia. Invece, nel mio caso, a ogni spostamento la “rete” di contatti e clienti creata localmente si disfa e si deve ritesserne una nuova nel nuovo paese. Da un lato, questa situazione può essere stimolante perché scopri una nuova cultura e conosci gente nuova. Per altri versi è molto stancante, soprattutto quando hai creato in un paese una buona relazione con certi partner. Ad esempio, in Perù, devo dire che ero molto contento di collaborare con un’ONG italiana, Aspem, che mi dava allo stesso tempo fiducia e una certa libertà fotografica. Dall’altro lato, però, Lima non mi piaceva. Non si può avere tutto…

A Sarajevo in Bosnia Erzegovina, invece, dove mi trovo adesso, dal punto di vista personale e familiare si sta molto bene. Dal punto di vista fotografico è anche molto stimolante, per via dei temi legati al post guerra. Dal punto di vista professionale non ci sono però grandissime opportunità. Le offerte formali sono ridotte all’osso (quando c’è osso…) e la concorrenza è agguerritissima.
Comunque, si cerca di aggirare gli ostacoli e per inserirmi in un mercato molto ristretto per i fotografi documentalisti, ho iniziato a offrire formazioni “presenziali”. Questo mi permette di conoscere persone nuove, appassionate di foto e con loro scoprire addirittura aspetti della città in cui vivi che non avresti forse mai conosciuto da solo.

Ci sono altri fattori che influiscono (nel bene e nel male) sul tuo lavoro?

Mi piacerebbe parlare in particolare della totale “svalorizzazione” della fotografia di qualità. Ci sarebbe da scriverci un trattato ma mi limiterò a sorvolare il tema con qualche esempio.
Credo che il fatto che “fare una foto” sia alla portata di tutti ma proprio tutti, e ancor di più ora con gli smartphones, contribuisca sempre di più a consolidare la “credenza” che una buona foto la possano fare tutti. Prendo ovviamente un po’ di scorciatoie ma, per un’istituzione, appare più giustificabile pagare un consulente 300 euro al giorno che pagare un fotografo per un “assignment”. Tanto si considera che la foto di un progetto o di un evento la possa fare qualsiasi persona dentro all’istituzione…
Peccato, perché una copertura fotografica ben realizzata – a livello estetico e di contenuti – può veramente valorizzare un’iniziativa, sia in termini di marketing, che in termini di memoria storica visuale. E’ come se si assumesse un consulente per fare una valutazione sull’impatto sociale di un programma solo perché sa leggere, scrivere e contare fino a 1000.
Questa falsa equazione “fotografare lo sanno fare tutti” = “le foto sono gratis”, pervade poi tutti i livelli.
La questione della remunerazione per noi fotografi è un problema serio. E non parlo nemmeno di lavori tuoi che ritrovi per incanto pubblicati senza vedere l’ombra di un centesimo. E magari pubblicati da un celeberrimo giornale italiano della sera…

luca bonacini

Sarajevo, le “rose”

Dato che quando arrivate in un nuovo paese, Florence per contratto deve cominciare subito a lavorare, tu sei quello che si occupa di tutte quelle cose pratiche – sistemare casa, figli, mobilità, etc. – che sono necessarie perchè la famiglia cominci a funzionare rapidamente nel nuovo luogo. Come ti senti tu nel fare queste cose, che in genere sono affidate alla metà femminile della coppia? Hai avuto momenti di sconforto o di scoraggiamento in questo ruolo?

Dal punto di vista dell’istallazione, come uomo, non ho mai sentito una particolare pressione da parte del paese d’accoglienza. Per motivi di tempo a disposizione, faccio ovviamente gran parte delle cose io, a volte assieme ai bambini. E senza nessun problema. Dove forse ci si sente più sfasati nel discorso di genere, è in certe situazioni dove il binomio bimbo-mamma appare ancora “naturale”. Ti faccio l’esempio dal pediatra. Mi è già capitato di essere interpellato dall’infermiera di turno che con voce non saprei se di sgomento o di condanna, mi chiede: “dov’è la mamma?!” Per il resto tutto ok o forse io non ci faccio troppo caso.
Lo scoraggiamento o lo sconforto derivano piuttosto dai tempi d’istallazione, a volte più lunghi del previsto, oppure da pratiche burocratiche o operazioni, anche semplicissime, ma da sbrigare in lingue fino a pochi mesi prime improbabilissime… Ecco, ci voleva la Bosnia per trovarmi a implorare qualcuno di telefonare al mio posto per prenotare un banalissimo ristorante.

Sappiamo che il modello della donna che lavora e si incarica in prima persona del mantenimento della famiglia, con un uomo che la segue e ha molto tempo a disposizione, e magari non produce reddito in maniera regolare è qualcosa di ancora molto raro, soprattutto in certe culture. Tu ti riconosci in questo modello, e se sì, ti pesa?  Come vieni visto in generale da chi ti incontra per la prima volta e viene a sapere che il lavoro “fisso” ce l’ha Florence?

Per quanto riguarda il modello di cui parli, per riconoscermi mi ci riconoscerei pure, però, come dici bene tu, rimane un “modello”.
Siamo ancora nella sfera dell’ideale, a volte dell’auspicio e sicuramente della rarità. Anche se qualcosa sembra cambiare, lo schema rimane ancora molto tradizionalista.
Prendiamo gli eventi sociali, cocktail e affini, quando si chiacchiera con persone appena conosciute. Di solito, il primo contatto visuale e verbale avviene con me. Esauriti i pochi istanti a circoscrivere l’altro professionalmente, l’attenzione si sposta su Florence e sugli argomenti attinenti al lavoro. Raramente iniziano considerazioni sui classici della fotografia francese o sui contrattacchi del Giacomelli. Se va bene, devo cercare di far capire al mio gentile interlocutore, alla ricerca di una nuova macchina fotografica, che non sono un venditore ma fotografo. Per il suo gran dispiacere…

In termini generali, credi che la vita di un uomo accompagnante sia più o meno dura di quella di una donna accompagnante e perchè?

Non saprei comparare. Forse, però, c’è più pressione sull’uomo. Io posso dirti che sento meno la questione del “ruolo” e più quella della remunerazione. Non per una questione di necessità economica. E nemmeno per una questione di “orgoglio”. Piuttosto, per l’idea di riconoscimento. E credo che il riconoscimento in questa nostra società passi in parte dalla retribuzione. Non solo! Infatti, ho fatto un po’ di volontariato fotografico – parlo di quello a favore di ONG e di chi ha veramente bisogno, non le festicciole diplomatiche – e ne sono contento.
Ma poi bisogna che ci sia remunerazione, riconoscimento. Che le persone capiscano l’importanza di questo. Se paghi la donna o l’uomo di servizio 5, 10, 20 euro perché non il fotografo? Anzi, sai che c’è di nuovo? Ora a chi mi chiede dei servizi gratis, gli faccio firmare un contrattino alla simbolica somma di 1 euro, reale o dinaro che sia, così, tanto per affermare il concetto della retribuzione e della professionalità. Chissà che non cambi così un po’ la mentalità!

luca bonacini

Ayacucho, Perù

Cosa pensi potrebbe migliorare lo standard di vita di un uomo che accompagna la propria moglie/compagna all’estero?

Chi accompagna il suo coniuge all’estero dovrebbe informarsi in anticipo sulle opportunità professionali del paese, magari imparando già un po’  la lingua, in modo da arrivare nel nuovo paese già preparato. Inoltre, un sito come Expatclic può veramente aiutare chi espatria a prendere contatto con la sua futura realtà.
Le società e le organizzazioni che inviano personale all’estero potrebbero, inoltre, “formalizzare” la presenza del coniuge, donna o uomo che sia… anche nella busta paga. Come fanno gli svizzeri, mi pare, per il loro personale diplomatico.

Un’ultima parola sui figli: come la vivono loro? Ad esempio, quando erano piccoli i miei bambini ogni tanto se ne uscivano dicendomi “tanto tu non lavori”, mentre io avevo sempre cercato di instillare loro l’idea che il “lavoro” non è soltanto uscire di casa e avere un ufficio e uno stipendio. I tuoi ti hanno mai detto niente del genere? Ci sono stati momenti in cui questa situazione ti ha pesato, in rapporto a loro?

Per il momento i figli mi “vedono” al lavoro e, allo stesso tempo, mi sembra che capiscano bene la differenza tra me e Florence. Ma forse sono ancora nella fase in cui il papà è un “piccolo eroe”… Piuttosto, la persona che mette più pressione su di me… sono io!

 

Luca Bonacini
www.lucabonacini.com
Intervista raccolta da Claudia Landini (Claudiaexpat)
Fotografie ©Luca Bonacini, tranne la foto principale (Pixabay)

 

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