Silviaexpat ci racconta il 4 marzo a Khartoum (2009) e riflette sulla percezione della sicurezza in espatrio.
Oggi è il 7 marzo, da tre giorni ormai il Tribunale Penale Internazionale ha emesso il mandato d’arresto contro il Presidente Omar Al Beshir per crimini di guerra e crimini contro l’umanità in Darfur.
Il 4 marzo a Khartoum la tensione era evidente, e ovunque. Molti militari e poliziotti, agli angoli delle strade e presso le ambasciate e le banche e gli uffici importanti. Già il giorno prima era stato deciso da tutti, sia i privati che il settore governativo così come ovviamente le rappresentanze diplomatiche e le organizzazioni internazionali, che espatriati e internazionali avrebbero dovuto restarsene chiusi in casa per qualche giorno, per evitare di essere oggetto di rappresaglia da parte di cittadini ‘arrabbiati’ o bande incontrollate di miliziani vicini al presidente. Abbiamo fatto scorta di latte, pasta, carne congelata, burro, biscotti. Lampadine. Candele. Pile. Cercando di capire che cosa sarebbe successo…
In realtà non è successo granchè. Certo, grandi dimostrazioni di piazza, su al centro, verso il Nilo, ci sono state sia giovedi che venerdì; propaganda forse. Ma gli scontri, gli assalti, gli attacchi incendiari contro il compound dell’ONU o di altre organizzazioni internazionali non ci sono stati. O fino ad ora almeno.
Ci eravamo chiusi in casa con un gran timore di violenze e rappresaglie. L’ansia – che montava da giorni in previsione della data X nel mio caso si era davvero trasformata il 4 marzo in vera e propria paura. Non ho vergogna a dire che poco prima dell’annuncio del TPI ho dovuto prendere qualche goccia per calmarmi. Adesso, col senno di poi, sorrido anche un po’ davanti alle paure un po’ da clichè che ci prendono quando viviamo scenari mai vissuti prima, in contesti poi così difficili.
Ma è anche vero che la sicurezza in espatrio non è sempre scontata. Forse, in realtà, non lo è mai neanche a casa nostra; io – come molte tra noi credo – sono cresciuta in un’Italia devastata da bombe, attacchi terroristici, gambizzazioni, manifestazioni e cortei in cui spesso ragazzi e ragazze ci lasciavano la pelle. Chi vive o ha vissuto a Palermo, Roma, Milano, Bologna, Napoli avrebbe tante storie da raccontare.
Eppure, a casa nostra ci sentiamo sicuri. Mentre fuori, ci sentiamo molto più vulnerabili. Forse la barriera linguistica, l’insicurezza che deriva dalla non conoscenza del luogo, dall’impossibilità – in alcuni paesi come per esempio il Sudan – di poter prendere la macchina e fuggire. Chi lo sa… Fatto sta che spesso, la paura di quello che potrebbe succedere – così come le ansie di chi ci chiama dall’Italia, per sapere come va – rendono tutto molto più drammatico e insostenibile di quanto non sia.
Alla fine infatti, a noi, non è successo nulla. Al paese, al Sudan, alla sua popolazione sì, ma ce ne accorgeremo solo tra qualche settimana, tra qualche mese. Per il momento infatti Khartoum sembra tranquilla. Non sono previste manifestazioni, i negozi riaprono, la gente torna per le strade di Amarat.
Sono andata in avanscoperta a comprare latte e pane – vestita da siriana in kajal, chador, abaya – e per ora sembra che tutto sia di nuovo come prima, un normale sabato di fine settimana.
Presto gli arabi impareranno a vivere con la condanna internazionale, si stringeranno sempre più attorno al loro presidente, accusando la comunità internazionale di neo-colonialismo, di ingerenza e di spionaggio.
Gli altri, i neri, gli africani del sud o le popolazioni del Darfur, del Khordofan e di altre regioni del paese continueranno a vivere nella paura, nell’indigenza, nel non rispetto dei diritti umani. I bambini e la loro infanzia rubata continueranno a riempire pagine di riviste e tabloid patinati, e a morire di fame, di malattie e d’infinita tristezza.