Silviaexpat ripercorre con noi i ricordi del suo primo espatrio, e ci porta a Gilgit, Pakistan, dove ha vissuto situazioni…estreme è dir poco!
Io ho cominciato da subito con quello che qui chiamiamo l’espatrio duro quando ho seguito il mio compagno a Gilgit, in Pakistan, nei Territori del Nord. E che Nord!! Parliamo della terra degli 8,000, là dove s’incrociano l’Hindukush, il Karakoram, il Pamir e l’Hymalaya, le più imponenti catene montuose del pianeta… Freddo becco d’inverno e caldo atroce d’estate.
Matthias faceva parte di una spedizione scientifica che aveva stabilito il suo quartier generale nel capoluogo della regione, a Gilgit, e lì l’ho raggiunto nell’autunno del 1993. Un bel viaggio di 16 ore in pullman, da Rawalpindi e lungo l’Indo, viaggio notturno naturalmente e con l’autista che, come da cliché, non faceva che fumare hashish e spingere sull’acceleratore…
A Gilgit e in generale in tutta la regione non c’era elettricità se non ogni 2 o 3 giorni e solo alla sera e quindi vivevamo con lampade e stufe a petrolio, non vi dico che odore di kerosene in casa… Avevamo affittato una grande stanza con bagno e cucina (esterna) presso una bellissima casa colonica sù in collina e in qualche modo riuscivamo a riscaldarla nei freddi mesi invernali.
Tra l’altro, non avendo frigorifero, d’inverno potevamo tenere la carne appesa fuori per qualche giorno senza paura che si rovinasse. L’unica paura era che se la rubassero i gatti affamati del circondario, per quello l’appendevamo ben stretta alle travi del soffitto!
D’estate invece si metteva tutto in buste e pacchi ben chiusi che venivano poi fissati nelle acque del canale dietro casa e naturalmente si diventava più o meno vegetariani. Inoltre, quando non c’era la corrente, si stava rintanati sotto un albero, soprattutto nelle ore più calde, minimizzando i movimenti e bevendo acqua e sale per evitare la disidratazione, cosa piuttosto comune in Asia centrale.
Cosa non si trovava a Gilgit? Beh, farei prima a dire cosa si trovava. Allora, al bazar, ottima carne di bufalo, macellata fresca; verdura e frutta di stagione, pomodori tipo ‘Roma’, importati dalla FAO negli anni ’80, una meraviglia, grandi, succosi, proprio come a casa! Uova, pollame, latte in tetrapack, nescafè, gallette Marie, biscotti al burro secchi, da inzuppare nel caffelatte. La pasta o i pelati naturalmente non c’erano e allora preparavo dei sughetti freschi e ricchi con cui poi letteralmente ricoprivo degli strani e puzzolenti maccheroncini cinesi, saporitissimi a detta di molti amici. Poi, ovvio, tutto quello di cui si forniva la cucina locale, quindi chapati, spinaci, ceci, riso, lenticchie in tutte le salse, arrosti vari.
Inoltre, all’epoca, ovviamente non c’era internet e per fare telefonate intercontinentali (oltre che nazionali) bisognava andare all’unico posto telefonico pubblico, tenuto dall’esercito, dove si poteva prenotare la chiamata e aspettare (un’ora, due…) per poter parlare malamente e riconoscere tra mille eco la voce della mamma…!
Eppure, tra tutte le mille ‘difficoltà’ della vita a Gilgit, il coprifuoco, le lotte intertribali e religiose; la distanza da… tutto, l’assenza di cose che adoravo come il vino, il formaggio o il cioccolato insomma, nonostante tutto, quei tre anni lì sono stati i più begli anni della mia vita. Anni di ricerca e di scoperta di un mondo diverso, dove si godeva di poco e bastava un pezzetto di cacio importato da amici di passaggio a farci felici per giornate intere. Insomma, un espatrio duro, sì, ma felice e costruttivo!
Non così, invece, l’anno scorso, a Khartoum, in Sudan. Per carità, avevamo l’elettricità e quando mancava oplà, via col generatore di corrente. E naturalmente avevamo l’aria condizionata in tutte le stanze, e nei supermercati si trova praticamente di tutto, ma insomma, quello non era il problema. Per me il punto è stato la scarsità di cose da fare, la sonnolenza, se volete, della città, stretta dal deserto…
Questa mancanza di attività e il fatto di non avere un lavoro, se non altro un qualcosa per uscire di casa, mi hanno fatto sentire spesso come imprigionata dentro le quattro mura di quell’enorme appartamento in cui ho trascorso praticamente tutto l’anno a Khartoum, con 5 bagni e qualche finestrella assurda di qua e di là da cui entrava poca luce e molto caldo. Senza un progetto, senza un attività creativa non c’era molto che potesse offrire la città. O per lo meno, non a me.
Forse sono anche capitata in un brutto momento, nei giorni in cui il presidente del paese veniva dichiarato colpevole di crimini contro l’umanità dal Tribunale Internazionale – cosa che ha naturalmente ridotto la mobilità di noi espatriati e che ha reso l’atmosfera molto tesa e per me insopportabile. Il centro città rimaneva off limit, l’università manco a parlarne.
Non mi rimaneva che girare in lungo e in largo le zone più residenziali, una cassetta di musica sudanese nel mangianastri. Foto? Impossibile, non avevo il permesso (ricevuto solo a maggio, ma allora con gli haboub e il gran caldo non avevo più molta voglia di andare in giro a fotografare). E di fondo, una gran solitudine. Nei primi mesi non conoscevo praticamente nessuno, non avevo amiche, cosa che invece per me è fondamentale come l’aria che respiriamo.
Dopo l’estate finalmente, quando ho conosciuto Lisa(expat!) e altre donne, italiane e non, ho avuto se non altro la possibilità di confrontarmi con le loro storie, le loro vite ed esperienze a Khartoum e questo mi ha aiutata moltissimo. Farsi due risate, lamentarsi con qualcuno che capisce esattamente cosa provi di fronte all’ennesimo disastro, paturnia, momento di stanchezza… Aiuta eccome! Anche perchè la pesantezza di Khartoum aveva colpito anche il mio compagno (che lavora nel campo degli aiuti umanitari) e alla fine il tutto aveva influito anche sul nostro rapporto di coppia e insomma… quando ci han proposto la Tanzania abbiamo accettato l’offerta senza neanche pensarci due volte.
Adesso quando sento qualcuno lamentarsi di Dar es Salaam penso che è proprio vero che apprezziamo un posto a seconda di dove veniamo!