Guia è italiana e attualmente vive a Gerusalemme. La ringraziamo per questo interessantissimo articolo che solleva dei punti di riflessione molto stimolanti nel rapporto con la famiglia d’origine in espatrio. Grazie Guia!
Figli, media e autonomia in equilibrio sul filo che ci lega alla famiglia d’origine
La prima partenza non si scorda mai: al confine della foresta amazzonica, in un villaggio “nei pressi” di Belém do Pará, Brasile. Clima: intorno ai 30 gradi tutto l’anno. Umidità: non ci farai più caso, la camicia sta appiccicata addosso, bagnata di sudore. Ospedale più vicino: a 2 giorni di jeep. Ne eravamo entusiasti, con una bimba di quattro mesi che dormiva tutta la notte e che quindi confermava il semaforo verde alla partenza.
Dieci giorni prima di salire sull’aereo mio marito parte per una settimana e io interiorizzo la responsabilità di essere madre. Scopro il significato di insonnia e crampi alla bocca dello stomaco. Il cervello rielabora i segnali fisici e ammetto che la cosa non s’ha da fare. Mi sento di esporre troppo la meravigliosa creatura.
Da una rapida analisi deduco che Marco mi lascerà, che il prete che ci sta aspettando non mi rivolgerà mai più la parola, che incontrare per strada tutti quelli a cui la partenza era stata annunciata non sarà gratificante e la figuraccia è assicurata.
Sarebbe stato solo un viaggio esplorativo, ma finalizzato a un trasferimento duraturo. Senza prospettive avrebbe perso di ogni significato. Corro il rischio e faccio esplodere la bomba: penso sia meglio non partire. Miracolosamente resto sposata, non vengo scomunicata e realizzo che non sono la sola a credere che sia un saggio ripensamento. I genitori di mio marito tirano un respiro di sollievo. I miei sorridono annuendo con uno sguardo da ‘te l’avevo detto…’ che non mi lascia vie di scampo. Devo ammettere che era un’imprudenza.
Perdurare è diabolico e anni dopo torniamo alla carica, con due bambine questa volta. La preoccupazione nei nostri confronti viene espressa in modo diverso dalle famiglie d’origine. I miei usano la forma scritta. Un invito a cena ufficiale per discutere la cosa.
Marco è già partito e mi sento piena di argomenti validi per poterli tranquillizare e per condividere con loro le nostre fondate motivazioni all’impegno professionale in campo umanitario.
Ne esco a pezzi perchè alle bambine è arrivato un messaggio subliminale chiarissimo: la mamma è una grande egoista, ama più i Rom scappati dal Kossovo di voi e non capisce quanto pesante sarà il vostro trauma da sradicamento. La famiglia di Marco è distrutta al pensiero di non vedere più le bambine, ma ribadisce la fiducia in noi e nelle nostre scelte. E lo esprime con qualche lacrima sfuggita al controllo. I figli sono una leva fortissima nella triangolazione tra noi, l’espatrio e la famiglia d’origine. Catalizzano sentimenti, ansie e responsabilità ampliandoli in maniera esponenziale.
Paesi ‘in’ e ‘out’
Il nostro espatriare è anche una questione d’immagine per la famiglia d’origine. Per fortuna in Italia c’è un’esterofilia diffusa e dire che i propri figli vivono all’estero ha un sapore di interessante apertura d’orizzonti. Ma i paesi del mondo riscuotono in modo diverso. Il Montenegro non aveva grande appeal. Geograficamente disperso nel problema etnico della ex Jugoslavia, nonostante sia vicinissimo all’Italia, veniva percepito come se fosse lontano anni luce. Onore al merito dei genitori di Marco che ci sono venuti a trovare e ne hanno apprezzato le bellezze. Alcune sono persino patrimonio dell’umanità, come le bocche di Cattaro.
L’Uganda pure non appariva granchè significativa, ma il fatto che fosse Africa, mescolava l’attrazione esotica al terrore di una primitività fuori da ogni schema. E poi l’Africa è l’archetipo del bisogno umanitario, quindi era comprensibile che ci fossimo ‘finiti’ e rimasti sei anni.
Quando siamo andati in Inghilterra ad azzerare i nostri risparmi facendo degli interessantimi master agli esordi della crisi economica globale, immergendoci nel gelo del clima praticamente scozzese del Nord-Est, la cosa anzichè porre alle nostre famiglie interrogativi sulla nostra sanità mentale, ha riscosso un successo impensabile. Anche grazie ai voli low cost ci sono venuti a trovare in tantissimi.
Dal Regno Unito Marco si è catapultato ad Haiti pochissimi giorni dopo il terremoto, per aprire una sede di lavoro e scrivere progetti. Io ero un pochino preoccupata sapendolo al centro dell’emergenza del momento. Lavorava come un matto e i primi giorni la sua casa-ufficio era una tendina assediata dai topi nel campo dei caschi blu peruviani. Ma le nostre figlie hanno visto salire alle stelle la loro popolarità tra amici ed insegnanti, perchè erano sulla cresta dell’onda della notizia più seguita. Le nostre famiglie erano molto partecipi e sentivano con apprensione l’urgenza della cosa, resa vicina e reale dall’eco mediatica. Mi trovavo a dover far fronte a una richiesta di aggiornamenti molto maggiore rispetto alle notizie che effettivamente fossi in grado di ricevere in diretta da Marco.
Adesso che siamo a Gerusalemme l’aspetto maggiormente enfatizzato dalle nostre famiglie riguarda la bellezza e la spiritualità del luogo. Mentre noi cerchiamo di entrare a capire le tensioni politiche nella complessità delle dinamiche economiche, militari e religiose in gioco e Marco fa del suo meglio per non prendersi nessun razzo in testa quand’è a Gaza, ci sembra che più che ricevere preci dai luoghi natali, sarebbe cosa gradita che noi ci adoprassimo da qui a ricordare i nostri cari lontani. E così sia.
Le immagini del luogo dove siamo e per certi versi di noi stessi risentono in modo molto forte, nella relazione con le nostre famiglie d’origine, del taglio che stampa e televisione scelgono di diffondere.
Autonomie
L’ultimo aspetto che vorrei evidenziare è il senso di inebriante autonomia che la vita all’estero fa assaporare. Il non poter contare sulla propria famiglia per un babysitteraggio di emergenza viaggia insieme al senso di colpa di non poter essere un appoggio operativo per i nostri genitori invecchiati.
Entrambi hanno come contropartita una discreta libertà di manovra. Possiamo organizzare viaggi, vacanze, amicizie, attività, impegni in totale leggerezza. I parametri li stabiliamo noi, la pressione del controllo sociale e della risposta alle aspettative altrui è decisamente poco significativa in questi contesti di vita da espatriati. Ci sentiamo forti e indipendenti.
In questi tredici anni di vita raminga ho avuto però modo di constatare quanto questa millantata autonomia conti sulla disponibilità incondizionata delle nostre famiglie d’origine e dei nostri amici più cari. Tutti sanno che al nostro rientro in patria potremmo far uso di taxi e navette dall’aeroporto a casa. Ma ci vengono a prendere. Sanno che siamo carichi di masserizie e creature e ci vengono ad abbracciare. Mia suocera oltre alle braccia spalanca sempre anche la porta di casa e si lascia invadere dalla nostra presenza ingombrante, fisica ed emotiva. Lascia che le rivoluzioniamo orari, abitudini e che le cambiamo tutti i programmi concordati: perchè ne abbiamo fatti di migliori! Non ci vediamo per mesi ma quando ci ritroviamo la convivenza è strettissima, anche i nostri spazzolini da denti familiarizzano. E quando ripartiamo la vedo che si commuove dal profondo del cuore. Ma mi piace immaginare che chiuda la porta alle nostre spalle e con la musica a palla stappi una bottiglia per brindare alla sua libertà ritrovata.
Tocca a noi
Meno tre mesi e non posso credere che ci trasformeremo in famiglia d’origine. Ridendo e scherzando ora tocca a noi. La nostra prima figlia tornerà in Inghilterra per l’università. Non siamo affatto pronti, mentre lei è lanciatissima, certa di saper volare. Speriamo di essere capaci di goderci le sue evoluzioni in aria senza farci pendere troppo dall’ansia, facendole il tifo anche quando uscirà dal nostro cono visivo, felici che sia lei a tracciare la rotta verso nuovi orizzonti.
Guia
Gerusalemme
Aprile 2012
Foto ©Guia