Barbara è una carissima amica di Expatclic, che ha scelto di seguire il marito nel suo lavoro ad Atene. In questo stimolante articolo sul suo espatrio in Greciac, ci accompagna attraverso tutte le fasi di questa interessante esperienza. Grazie Barbara !!!
E’ andata così.
F. era seduto sul divano : “Forse c’è la possibilità che per qualche anno mi propongano un espatrio in Grecia, la sede di Atene”.
“Ah ok”- dicevo io, e intanto scolavo la pasta. “Ci sarà la scuola italiana ad Atene? Forse per Carlotta sarebbe meglio frequentare l’ultimo anno di asilo in una scuola italiana. Oppure vediamo per una internazionale?”.
Solo qualche minuto dopo realizzai che effettivamente, forse, quello della scuola non era l’unico problema da affrontare. Forse c’era quello della casa qui in Italia, no, venderla non se ne parla, l’abbiamo comprata 5 anni fa, era la “casa per sempre”, da qua basta, non si esce più. Già, ma che fare, la lasciamo qui, abbandonata, per quanto tempo? 1,2,3 anni. Con l’umidità della provincia veneziana, che si mangia le case abitate?
Forse c’era il problema del trasloco: dopo aver faticosamente riunito tutte le nostre cose sotto un unico tetto, ora si inizia, nuovamente, a spostarle. Forse c’era il problema della macchina: la portiamo, o la lasciamo qui, forse la vendiamo, ma che ce ne facciamo di quella macchina ad Atene.
Atene. Ci avevo passato 6 mesi, quando avevo 16 anni. Ricordo: caldo, mare, luce. Avevamo preso una casa? Ah no, giusto. Albergo. Colazione clamorosa, frutta fresca e yogurt buonissimo. Atene, 17 anni fa, sempre e ancora per seguire pezzi della mia famiglia. Nel 2007, dopo 5 anni di stasi, si riparte, dunque.
Io da parte mia avevo collezionato 12 traslochi in 32 anni (contando anche i 4 dell’università, erano solo pochi scatoloni ma valgono comunque). Tanta Africa, in Zambia con mio padre. La casa di Lusaka, dove lo obbligavo ogni sera a controllare sotto il letto che non ci fossero serpenti o rane. Per i serpenti lo farei ancora adesso, per le rane ancora ci rido.
Le case di New York. La prima, non si potevano aprire le finestre, 32° piano, nell’ascensore non c’era il 13° piano, se avevo fretta dovevo contare solo fino a 31, e poi si arrivava. La seconda, “so cute”, un piccolo appartamento con le pareti di un verde bellissimo, un verde molto newyorkese, quello dei telefilm, per intenderci. La piccola cucina, dove aspettavo per cenare con mio padre, due racconti veloci sulla giornata, e poi veloci, a nanna, perché la mattina ci si svegliava presto.
F. non era da meno, in pratica era rientrato in Italia quando aveva 14 anni, dopo aver passato anni tra Nigeria, Ghana, Iraq, e qualche altro stato che non ricordo mai. La nostra casa, infine, la nostra bimba, le nostre radici. Da qui non ci si muove più, pensavamo, se ne andrà Carlotta, e ci racconterà dei suoi viaggi, dei suoi paesi, delle sue nuove case.
In realtà, l’andare è qualcosa che ti rimane dentro, perché ti senti, o almeno, noi ci sentiamo, o almeno, io mi sento così imperfetta, quando sono stabile. C’è chi ha gli amici delle elementari, io mi sono fatta e rifatta amicizie in ogni parte del mondo, qualcuna ancora resiste, molti sono numeri assurdi su assurde e vecchie rubriche del telefono che porto sempre con me. Tanti, soprattutto gli amici dell’università, se ne sono andati dall’Italia: Toronto, Berlino, Dubai. Sono più felici che se fossero rimasti? Penso di sì, o almeno me li immagino così. In realtà penso che andare sia anche uno stimolo per rimanere tra i propri simili.
Ed infatti, la prova del nove, la cartina di tornasole, in questa occasione, è stata la cena con i colleghi della mia prima azienda, tutte vite normali, come ero io ai loro occhi, perché il lavorare là aveva coinciso esattamente con il mio tentativo più riuscito di sedentarietà. Mi guardavano con un misto di orrore e spavento, come se fossi diventata pazza, come se gli avessi detto che ero pronta per trasferirmi al polo nord. Mi facevano delle domande strane, e ancora più strane alle loro orecchie dovevano essere le mie risposte.
Mi chiedevano se non avessi paura. Paura? Paura di andare ad Atene, perché – cito testualmente – “è una città che non conosci”. Come potevo dare una risposta sensata? Cioè che è proprio il non conoscere, il non sapere a cosa si va incontro, le persone che conoscerai, quelle con cui ti troverai a ridere all’improvviso come se ti conoscessi da vent’anni, i posti della città che diventeranno tuoi, una lingua da imparare, un paese da conoscere; insomma che era tutto questo, che per loro era paura, per me era un’attrazione irresistibile. Saluti e baci, e loro, ovviamente, sono stati i primi a non farsi sentire.
In realtà, tutti i mesi di preparazione all’andata, li ho vissuti con molto fastidio, con molta noia, per tutte le cose che avevo da fare. F. era già andato, io sono rimasta in Italia per sei mesi a sistemare il tutto, anche perché Carlotta avrebbe iniziato la scuola a settembre, e doveva finire il suo anno di asilo in Italia. Nessun sentimento contrario, nessun pentimento, tranne la parentesi, come mi piace chiamarla o, meglio, l’enorme parentesi.
Si da il caso, infatti, e questa è la parentesi, che la sottoscritta in Italia abbia un lavoro che adora. Sapete quando da bambini si sogna sul lavoro da fare, e si finisce da grandi a fare esattamente quello? Ecco, io mi trovo in questa situazione. Frutto di coincidenze alquanto fortunate, certo, ma incoraggiate dalla mia testardaggine. Colleghi a-do-ra-bi-li. Soddisfazioni, e piccole vittorie, anche. Non è il lavoro perfetto, quello certo non esiste, ma comunque con tanti, tanti, tanti lati positivi.
Non era un lavoro stanziale, tutt’altro. E qui nasceva un altro grande problema: io almeno una volta alla settimana me ne andavo tra Milano, Torino, Genova, Trieste, notti in albergo, valigie fatte e disfatte. F., prima della Grecia, era spesso comunque all’estero. Per alcuni mesi le nostre due valigie stazionavano in soggiorno, ce le scambiavamo a seconda delle durate dei viaggi. I nostri impegni di lavoro erano cadenzati da chi poteva rimanere a casa con la bimba, e la programmazione mensile non era facile. A volte, prima di addormentarmi in qualche albergo, non potevo fare a meno di chiedermi se non stavo sacrificando troppo, la mia famiglia qui e là, solo qualche weekend risparmiato al lavoro. Stavo sacrificando troppo, ero stanca, e stufa, e triste. Il lavoro chiedeva sempre più, la mia famiglia anche. Io ero nel mezzo, divisa tra lei e il lavoro. Che novità. Prima lo leggi solo nei libri, ti riprometti che sarai una mamma diversa, una donna migliore, che in fondo le altre non sono capaci come te, e poi invece scopri che è tutto vero, che la bimba vede più le maestre che la mamma e il papà.
Improvvisamente, si è dunque aperta questa parentesi. Perchè non provare dunque a chiedere un aspettativa di un anno? Un anno da dedicare a Carlotta, a mio marito, a me stessa, alla mia famiglia, ad una vita diversa. Mi sembrava un sogno: esisteva dunque la possibilità che F. tornasse a casa prima, non più alle otto e mezza quando già Carlotta dormiva, ed io provavo a rimediare una cena per noi. Non più sveglie alle quattro e mezza del mattino per prendere il primo volo per Roma. Potevo spingermi addirittura a pensare che avrei portato mia figlia alle feste di compleanno, a danza, a giocare al parco al pomeriggio. O solo rimanere in casa con lei, giocare, cucinare insieme, ridere, guardare con lei i cartoni.
E così è andata, dopo alcuni mesi, finalmente è arrivata la risposta positiva dalla mia azienda, anno di aspettativa concesso, e, come mi piace pensare, ho premuto il tasto “pause” sulla mia vita.
Così siamo arrivate ad Atene, con gli ultimi bagagli stracolmi, gli occhi dolci all’hostess di terra per farci passare i chili di bagaglio in più. La città ci accoglie in tutto il suo calore, non in senso metaforico, ma fisico: 43 gradi. La scuola inizia tra poche settimane, subito mi prende il panico: e ora che facciamo? Proviamo con qualche passeggiata alla mattina, ma mi rendo conto che già alle dieci è difficile uscire. Ci salviamo con la piscina, e Carlotta non riesce ancora a credere che la mamma non parte più, che il telefono tace, che non ha più mail da spedire.
Nemmeno la mamma si capacita di questo, e soprattutto non si capacita che tutto quello non le manchi più. Inizia la scuola, iniziano le nuove conoscenze, le prime uscite. F. dice che sarei capace di conversare anche con una pietra nel deserto, e penso che questa mia propensione alla conversazione qui sia stata immensamente utile. Per la prima volta sono all’estero non da figlia ma da madre, e quindi ora tocca a me creare quel network indispensabile anche per Carlotta. Una volta ci pensavano i miei, ora è il mio turno.
Continuo anche con le lezioni di greco, moderno, of course. Anche in Italia, per 6 mesi, 2 volte alla settimana andavo da Anna, una ragazza di Atene sposata con un veneziano, che mi ha fatto amare nuovamente questa preziosissima lingua. Quando sono arrivata quindi non ero proprio a livello basico, ma “basico più”, e anche questo, mi rendo conto, è stato davvero utile. Perdura ancora adesso la frustrazione di non riuscire nel mezzo di una conversazione ad inserirmi per specificare il mio parere. Fortunatamente qui tutti parlano in inglese, e anche bene, quindi la barriera linguistica si abbatte in tempi brevi. Le lezioni ora si svolgono in una caffetteria, in una delle fantastiche caffetterie di Atene, dove puoi stare seduto per ore ed ore, dove il tempo si dilata, e nessuno ha fretta.
Isidora, la mia insegnante, è una simpaticissima greca, mamma di un altro bambino che frequenta la scuola italiana. Le nostre sono conversazioni, più che lezioni, e non potete capire come aspetto il mercoledì, quando finalmente mi scorno con un po’ di aoristi. A dicembre ho trovato anche un fantastico centro Pilates. La mia maestra si chiama Anastasia (l’accento in greco è sull’ultima sillaba), e i miei compagni di corso di chiamano Demostene, Nausicaa, Artemide, e Dafne. A volte mi chiedo se stiamo girando una riedizione dell’Iliade, o se sia tutto vero. Loro sono lì che mi sorridono, e mi parlano lentamente in greco, così io posso capire meglio, e mi sento bene. Finalmente ho anche del tempo da dedicare agli altri, e quando riesco a donare quello che posso, e quello che so, mi sento bene.
Prima di andare a prendere Carlotta a scuola mi trovo con qualche amica, ci prendiamo un caffè, ci raccontiamo un po’ di gossip, parliamo delle cose che sarebbe bello fare con i bimbi, i parchi dove andare, gli spettacoli teatrali da vedere, i problemi di tutti i giorni. Ci guardiamo negli occhi con la complicità che solo le mamme sanno avere, e mi sento bene.
Mi sento bene anche alla mattina, quando io e Carlotta ci fermiamo al periptero… il periptero è qualcosa a metà tra un chiosco e una tabaccheria, ne esistono in in tutte le strade, con bibite fresche che ti salvano la vita d’estate. Dicevo, il signore del periptero parla italiano, e ci saluta sempre con un dolcissimo buongiorno, e regala le caramelle alla mia bimba, che le nasconde nelle tasche.
Mi diverto quando anche i miei amici ateniesi chiedono informazioni a me sugli autobus e i tram e la metro. Per una scommessa personale, e visto l’ottimo livello di trasporto pubblico della città, ho deciso di passare anche un anno ad emissioni zero. Non ho voluto la macchina, e io e Carlotta ci spostiamo solo con i mezzi pubblici. È bello esplorare le nostre preziosissime cartine e capire che autobus dobbiamo prendere per andare alla festina di compleanno di qualche suo amico. Così ho imparato a conoscere bene la città, meglio di mio marito che ci gira in macchina, e capita spesso che in auto Carlotta dica al papà di spegnere il navigatore, e ascoltare la mamma.
Ogni giorno è una nuova scommessa, e ci sono anche i giorni di noia, e vuoto, quelli soprattutto che passo a casa, a riordinare, pulire, lavare, etc etc etc. Non nascondo che a volte mi dispiace, e tanto, non avere il mio lavoro, e che vorrei sentirmi più produttiva, e che il primo paio di scarpe me lo sono comprata in Italia quando mia mamma mi ha dato la “mancia” di Natale, perché non posso sopportare di non guadagnare i miei soldi. Non ho più fatto un regalo a mio marito, perché mi sembra assurdo prendere i soldi dal conto per comprargli qualcosa che può comprarsi da solo. F. dice che l’assurda sono io, e non fa che dirmi che il problema non esiste, ma è più forte di me, da sempre abituata ad avere la mia indipendenza, fatico ad abituarmi a questa nuova situazione. Questo mi pesa, mi pesa tanto, come mi pesa ancor più la grande incognita sul nostro futuro.
Sia io che mio marito abbiamo sempre sofferto del fascino che si respira in questo paese, e la passione per la Grecia ha cementato l’inizio della nostra unione. Ora che qui ci viviamo, la Grecia sta ricambiando la nostra costanza nel rincorrerla, e volerla. Ovviamente abbiamo sperimentato e sperimentiamo aspetti negativi, ma quali paese non ne ha? Prendere il bello e il buono da tutto e da tutti, imparare se e come si può fare meglio: la piccola ricetta che ho imparato nei miei primi anni di vagabondaggio, che spero di aver trasmesso alla mia piccola.
Ora, che si farà? Si rientrerà in Italia, dopo questa parentesi. Forse, dico io. Perché lo “stare altrove” chiama sia me che F. con tale e tanta intensità che sarebbe sciocco non ascoltare questo richiamo, e perché il tipo di vita con cui siamo cresciuti ci fa sentire così bene, e non possiamo ignorarlo.
In Italia però c’è il mio lavoro, la mia realizzazione, la mia indipendenza, il mio tempo. Penso che tra pochi anni Carlotta sarà cresciuta, e troverà la sua strada, ed io mi vedo in una casa troppo vuota, F. al lavoro, Carlotta lontano. Non lo so, come finale non mi convince per nulla, non riesco a rendermelo plausibile. Non voglio nemmeno ritornare all’incubo di prima, della valigia in soggiorno, non lo merito io, e soprattutto non lo merita la mia famiglia. I miei giorni qui in Grecia passano, io vorrei avere più tempo ma, è noto, il tempo è l’unica risorsa veramente scarsa.