Home > Testimonianze > Ingiustizia ambientale, alternative autoctone

Vivere in espatrio è una fantastica opportunità anche per scoprire direttamente quanti e quali ingiustizie vengono commesse nel mondo a livello ambientale. In occasione della mostra Ingiustizia ambientale, alternative autoctone, esposta al MEG di Ginevra, ho riflettuto su quanto ho imparato in questo senso grazie all’espatrio.

 

La mostra di cui sto per parlarvi, Ingiustizia ambientale, alternative autoctone, è divisa in maniera equilibrata tra il documentare quanto molti gruppi autoctoni siano stati colpiti in maniera ingiusta da una gestione irrispettosa del loro ambiente, e le strategie che hanno adottato per farci fronte.

Questo è un argomento appassionante per me sotto molti punti di vista. Innanzitutto, perché mi riporta al privilegio di aver potuto osservare con i miei occhi lo scempio che viene spesso compiuto in nome del profitto ai danni di gruppi minoritari. Come interculturalista, poi, penso che sia fondamentale includere nelle mie formazioni almeno un cenno a come l’abuso da parte di compagnie straniere forgi (o possa forgiare) le relazioni tra la cultura che accoglie e chi arriva. Non in ultimo, penso sia un segno di rispetto mostrare interesse verso questioni che toccano da vicino – e a volte disastrosamente – parti delle popolazioni dei paesi in cui ci installiamo, anche se temporaneamente.

I gruppi autoctoni in generale s’intendono formati da discendenti di popolazioni le cui terre sono state invase e occupate da altri. La mostra si apre con una serie di mappe del mondo divise per temi. Una di queste riguarda proprio la distribuzione di popolazioni autoctone, e la mia prima riflessione è scaturita dal fatto che in quasi tutti i paesi nei quali ho vissuto se ne ritrova una presenza massiccia. Altrettanto numerosi sono i conflitti causati dalla deforestazione, l’estrazione mineraria, lo sfruttamento di combustibili fossili e l’installazione di centrali idroelettriche. Sudan, Angola, Guinea Bissau, Congo, Honduras, Perù e Indonesia brillano per la presenza di bollini arancioni e rossi che stanno a indicare qualche conflitto in corso.

Ho provato a ripensare a quanto, vivendo in questi paesi, io fossi cosciente di questi conflitti. Mi sono resa conto, una volta di più, che essere sul posto magari non aggiunge informazioni a quelle che si possono reperire ovunque, ma fa sì che questi temi così importanti s’insinuino nelle nostre vite in modi inediti. Ho ripensato a quanto vedevo e ho scoperto nella gestione della spazzatura a Jakarta; a come in Perù avessi incontrato una donna meravigliosa che aveva a lungo lottato a fianco degli Ashaninka, decimati da una gestione irresponsabile e disumana della loro bella foresta, e che grazie a lei avevo conosciuto sotto una nuova luce; a come in Congo e in Angola abbia visto coi miei occhi bambini impiegati nell’estrazione mineraria e di diamanti.

Mi sono anche resa conto di quanto lo stile di vita di molti di questi popoli autoctoni sia ormai lontanissimo da quello occidentale che ormai la fa da padrone. Molti sono particolarmente vulnerabili ai cambiamenti climatici per via della loro stretta relazione con la fauna, la flora e gli ecosistemi per i loro bisogni alimentari, di cura e culturali. I popoli autoctoni proteggono la loro terra, l’acqua, la biodiversità e gli ecosistemi grazie alle loro pratiche e conoscenze che si rinnovano di continuo.   Queste formano parte integrante della loro cultura e includono la lingua, la classificazione delle piante, le interazioni sociali, i rituali e la spiritualità.

Tutto questo forgia un rapporto molto diverso con l’ambiente di quello che ha instaurato l’uomo occidentale. Quest’ultimo ha un atteggiamento di sfruttamento incondizionato e distruzione, mentre i popoli autoctoni si pongono rispetto al loro ambiente in maniera subordinata e rispettosa.

Mi ha colpito molto quello che veniva spiegato alla mostra sulle pitture aborigene. In pratica per gli Aborigeni australiani, tutte le parti del paesaggio, i corsi d’acqua, le dune, isole, isolotti e costellazioni sono considerati come tracce delle azioni dei loro antenati durante quello che è chiamato il Tempo del Sogno. A partire dal 1976, con la promulgazione dell’Aborigianal Land Rights Act, il governo federale riconobbe agli Aborigeni il diritto di rivendicare le terre inoccupate della Corona, a condizione di poter dimostrare il loro legame con il territorio in questione. Gli artisti parteciparono alle rivendicazioni giuridiche dipingendo i racconti del loro gruppo. Portarono quindi i dipinti come prova catastale davanti ai tribunali specializzati nel trattamento delle rivendicazioni territoriali. Per gli Aborigeni, l’atto di dipingere era in sé una prova del diritto patrimoniale sul loro territorio.

Ho trovato questa cosa di una fascinazione infinita. Un modo completamente diverso d’intendere e di rapportarsi al territorio sul quale si vive. E quando penso alle difficoltà che una gestione disgraziata delle risorse crea a questi popoli che vivono in armonia con la natura da sempre, e da sempre la amano e la rispettano, mi viene una stretta al cuore che non so descrivere.

Tanti popoli autoctoni, molti dei quali vivono nelle zone più minacciate da deforestazione e cambiamenti climatici devastanti, stanno lottando quotidianamente per sopravvivere insieme al loro territorio. Se ne parla troppo poco, non si fa abbastanza. Mi domando se chi espatria e vive un po’ più da vicino questi drammi, non dovrebbe far qualcosa per parlarne di più, per testimoniare come addirittura a volte la nostra stessa presenza sia sintomo della violazione dei territori che ci ospitano.

 

Claudia Landini (Claudiaexpat)
Ginevra, Svizzera
Novembre 2021
Foto principale: Ivars Utinan su Unsplash
Le altre cortesia del MEG

 

 

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